giovedì 8 dicembre 2011

1892. New York, Angelo Cornetta di Serre condannato a morte Veniva da Persano, suonava l’organetto. Accusato di due omicidi



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"Ti giuro che sono innocente: io non aggio acciso nisciuno". 1892, New York, a sei giorni dall’esecuzione di una condanna a morte, un gruppo di giornalisti va ad intervistare colui che da lì a poco sarebbe stato strozzato con l’impiccagione. Fra di loro c’è un reporter italiano. "Angelo Cornetta era un povero e ignorante suonatore d’organetto, nativo di Serre di Persano, in provincia di Salerno, il quale in età di ventiquattro o venticinque anni era emigrato in America, come fanno tanti. Sei o sette anni dopo egli conviveva a New York con una irlandese che un giorno si ammalò e che prima di morire all’ospedale lo accusò di averla orribilmente maltrattata". Comincia così la storia. A raccontarla è Adolfo Rossi, giornalista veneto, in uno dei capitoli di "Nel paese dei dollari, pubblicato una sola volta in Italia, dai fratelli Treves a Milano. L’obiettivo dell’autore è di spiegare agli italiani "la vita giornalistica americana". Per farlo l’autore , l’autore, usa la disgraziata avventura americana di un emigrato italiano che viene messo a morte, e la sua condanna eseguita, senza che il malcapitato arrivi a rendersene conto. Ad Angelo Cornetta il sogno americano va di traverso. Il primo processo non riuscì a chiarire se la sua convivente fosse morta naturalmente, magari per abuso di alcool, o per le sue bastonate. Viene così a due anni e mezzo di carcere. Rossi lo va a trovare in galera. E lo intervista. "Io stavo per strada tutto il giorno a suonare e lei si beveva tutti i nostri soldi. Furono le bevande che la uccisero". A due mesi dalla fine della pena, succede l’imprevisto. Cornetta viene mandato a sbucciare patate nelle cucine del carcere. Un diverbio con un altro detenuto, un irlandese che ce l’ha con gli italiani, che lo insulta. . "L’irlandese mi si gettò addosso e con il coltello, mi menò un colpo che parai, riportando una leggera ferita alla mano destra. Guardate, (e mostrò la mano che conservava la cicatrice). Appena vidi il sangue, brandii io pure il coltello e glielo ficcai nel cuore". Ed arrivò, inesorabile, la condanna a morte. "A morte, io? – diceva sbarrando gli occhi- . Ma giammai? Non sapete che ho tirato a colui per difendermi? Non capite che stavo per uscire di prigione quando avvenne la lite? Dovevo farmi ammazzare come una pecora? Potevo subire in pace tutti gli insulti di cui quell’uomo mi colmava?". Alla pronuncia della sentenza andò su tutte le furie: tentò di suicidarsi tagliandosi la gola con un ferro acuminato che aveva strappato alla porta della cella. I secondini se ne accosero subito e gliela strapparono di mano, la ferita di cornetta fu leggera. Poi rifiutò il cibo. Ed impazzì di dolore ben prima dell’esecuzione. Qualcuno tentò di salvarlo come un unico gruppo di cittadini che era a conoscenza della situazione della sua situazione psichica. Non ci fu niente da fare. "La giustizia americana era soddisfatta: aveva strozzato un pazzo furioso", così scrive nel 1892 Adolfo Rossi.

ORESTE MOTTOLA