venerdì 10 febbraio 2012

ROSCIGNO. Il dolce esilio di Libero Spagnuolo

Sovrastano sguaiate cornacchie
sui fumi dei comignoli in marzo.
Accendiamo per le nostre zitelle
le foglie delle palme d'ulivo:
morse sobbalzano, anime penanti,
dicono di sì e di no
alle nostre turbate domande.
Le foglie delle palme d'ulivo, Rocco Scotellaro

La data di fondazione di Roscigno, ex casale di Corleto Monforte, è ancora ignota. Di certo, però, si sa che verso la fine dell'anno Mille fu costruito un convento dai Benedettini, distante un miglio a sud dalla località oggi chiamata Piano, con accanto la Chiesa di S. Venere.  I corletani, che possedevano terreni in quelle zone e soprattutto i pastori, i porcai e i bovari, trovavano disagevole percorrere ogni giorno la distanza intercorrente tra l'abitato e i loro poderi, circa quattro miglia in linea d'aria. Per questo motivo intorno al convento dei Benedettini alcuni Corletani cominciarono a costruire degli insediamenti. Le abitazioni divennero sempre più numerose finché non sorse un vero e proprio agglomerato che fu chiamato Roscigno poiché nella zona abbondavano gli usignoli, in latino "luscinia". Nel 1860 i cittadini di Roscigno aderirono con entusiasmo alla rivolta contro i Borboni e alla dichiarazione di annessione al Piemonte. In tutto erano 1500 anime armate che, aggregate alla colonna di Lorenzo Curzio, presero parte alla repressione dei moti filo-borbonici nell’avellinese, prima, e alla battaglia del Volturno, poi. Nel 1902-1908, in seguito a leggi speciali sui paesi franosi, gli abitanti di Roscigno furono costretti ad abbandonare Roscigno Vecchia per trasferirsi nel nuovo centro distante pochi chilometri più a monte. La Roscigno Vecchia, abbandonata, resta tuttora un luogo dal grande fascino.


ROSCIGNO VECCHIAtesto e foto di Simone Valitutto
Alla ricerca delle possibili declinazioni sentimentali dei luoghi della provincia salernitana, mi reco nel versante cilentano dei Monti Alburni. Man mano che mi avvicino alla meta del mio viaggio il manto stradale è bucherellato da frane, smottamenti, indice che Roscigno Vecchia, il paese in eterno movimento, è dietro la collina.
Le fondamenta delle sue case scivolano a valle da quando il paese è stato costruito, frane e alluvioni ne hanno costellato la storia fino al 1902, quando il genio civile obbligò lo spopolamento. Da allora è nato un nuovo paese, anche se il vecchio centro non è mai stato lasciato solo: le pietre locali sono state sostituite da lastroni di vetro, la vecchia piazza è ancora passaggio obbligato per andare ai campi, gli androni pullulano di animali che vi pascolano.
E’ un borgo fantasma insolito Roscigno, imbrigliato nell’iconicità da cartolina, nell’epiteto “Pompei del ‘900”, nell’agiografia di un paese disabitato da, ormai, cent’anni. I contadini del luogo continuarono e continuano a sfruttarne stalle, ricoveri, orti e strade facendolo diventare il satellite agricolo del centro abitato. Senza bisogno di lavori di contenimento o mantenimento, gli abitanti di Roscigno, anche chi non è mai vissuto nelle antiche case, hanno considerato queste mura sgretolate, scalinate a pezzi e viottoli campestri parte della vita quotidiana. Roscigno Vecchia è l’immagine speculare del nuovo centro, non solo urbanisticamente, ma anche “sentimentalmente”. Lo sfruttamento agricolo prima e quello turistico dopo hanno fatto del borgo abbandonato il centro economico e culturale del paese.
Queste case in continuo movimento sembrano, però, attirare l’immobilità; il tempo si è fermato a Roscigno Vecchia, o almeno, al visitatore così pare.
La caducità delle pareti di pietra è opposta all’eternità, al ciclico ripetersi di atti e gesti quotidiani dei contadini e pastori che vi transitano e sostano. Roscigno è condannata a resistere tra l’immanenza dello stillare dei giorni che riduce in rovina e l’immortalità che solo gli esseri mitici possiedono.
E le case senza tetti del borgo hanno ospitato storie e figure che superano la quotidianità.
La sua ultima abitante ne è un esempio. Dorina, questo il suo nome, abbandonò il monastero in cui volontariamente si era promessa a Dio per essergli più vicina e pregarlo meglio nel luogo della sua infanzia, lì dove il padre aveva continuato ad abitare noncurante dei divieti, lì dove la madre continuava ad arrossarsi le mani nell’acqua gelida del lavatoio per i panni.
Altro esempio mitico è Giuseppe Spagnuolo “Libero”, colui che negli ultimi anni è diventato il custode del Museo della Civiltà Contadina allestito nella casa canonica di una volta e narratore delle vicende di Roscigno Vecchia.
Qui passa la maggior parte del suo tempo, desideroso di parlare con tutti, a raccontare il proprio amore per questo sputo di case di pietra. Un passato da militare, si definisce un abusivo non solo perché abita durante il giorno lì dove li è vietato, ma anche per il suo andare controcorrente in un mondo dove è obbligatorio seguire la massa. E’ un conoscitore di luoghi “Libero”, persone e storie di svariate parti d’Europa sono passate da lui per farsi raccontare il borgo che, nonostante la sua vantata anarchia, lo tiene incatenato a sé. Non sa scegliere tra la mancanza di regole che la quotidianità del custode gli obbligano e la necessità di confidare la propria passione a chi passa da lì… Una vena di cinismo si contrappone alla luce che, filtrando tra i platani secolari, gli fa brillare gli occhi quando parla della cura che riversa nella manutenzione non solo del borgo, ma soprattutto della sua memoria.
La duplicità d’intenti di Spagnuolo si nota anche nella risposta alla domanda su cosa significasse per lui la connessione tra luoghi e sentimenti.
Ormai, secondo lui, nessun posto conserva sentimento. La vita frenetica, l’inquinamento, la fetenzia da tutti i lati, hanno fatto perdere qualunque elemento sentimentale alla vita quotidiana. Anche il suo legame con Roscigno Vecchia per lui non è un legame affettivo, è puro spirito da abusivo, da persona libera che vuole continuare a popolare un luogo destinato all’abbandono. “Libero” assomiglia sempre di più a Prometeo, condannato per il suo amore verso gli uomini al supplizio eterno; anche lui, come la piazza circondata da case in rovina che cura ogni giorno, lotta quotidianamente col tempo, in bilico tra la caducità delle cose e l’eternità del mito.
Se così sono le cose, non credo ci sia un sentimento legato ad un luogo più forte di questo.