giovedì 16 settembre 2010

STORIE DI PANE E DI GRANO - Regia di Piero Cannizzaro

“Tra le valli del Monte Gelbison, e del Monte Cervati in uno dei luoghi più suggestivi del Cilento vive una coppia molto particolare: Angelo e Donatella. Angelo dopo aver studiato Sociologia all’Università di Salerno, si è trasferito con Donatella in uno dei punti più suggestivi del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano). Dalla città alla campagna per ricominciare una vita a contatto con i ritmi e i tempi della natura, dedicandosi alla coltivazione di un’antica qualità di grano conosciuto sin dai tempi dei Romani: l’antico carosella. Una testimonianza scritta di questo antico cereale si trova in alcuni documenti pubblicati a Parigi nel ’700.I nuovi contadini, istruiti e consapevoli del loro lavoro, hanno riscoperto l’emozione del far nascere la vita, prendendosi il gusto di farlo integralmente, governando tutto il processo, dalla semina fino al prodotto pronto per il consumo.In alcuni giorni particolari con la farina del carosella preparano il pane in forme artistiche che vende ad alcuni estimatori e clienti affezionati. Grazie al loro lavoro adesso sono in molti a conoscere questo antico cereale che viene sempre più apprezzato dai clienti di trattorie e ristoranti dove si cucinano e propongono i piatti della tradizione locale.Ma cè di più. La biodiversità ricreata da Angelo non si lega solo ai metodi di coltivazione e all’architettura.La sua è una battaglia di tutela per salvaguardare soprattutto una biodiversità di tipo culturale.Le trasformazioni della società contemporanea, anche nella zona del Pruno, hanno infatti portato i contadini, i pastori e in generale gli abitanti locali, a rimuovere le loro conoscenze culturali millenarie.Angelo, invece, cerca di recuperarle.

Tra le tante iniziative, ha invitato dei vecchi musicisti della zona a suonare nel suo casale, non solo con lo scopo di aggregare, come accadeva una volta, gli anziani con i giovani, ma soprattutto per far conoscere a quelle nuove generazioni i suoni della loro terra.

Alcuni, infatti, dopo averli ascoltati, si appassionano e diventano dei nuovi testimoni ( e futuri guardiani) delle musiche tradizionali del Cilento. Senza questo interesse, quel patrimonio di conoscenze andrebbe inevitabilmente perso”

Il saluto al giornalista Gennardino Alfano

Cià professore Alfano…

La morte: strano evento. La cupa mietitrice non ha risparmiato nemmeno il solitario ma solare professore Gennardino Alfano, l’uomo che amava la gioventù e che se ne andato in punta di piedi, non creando altri disturbi al rumoroso mondo, che amava descrivere nei suoi articoli di politica, di costume e di varia umanità. I giornali sono come gli almanacchi, riportano parole scritte e incolonnate che devono necessariamente durare l’arco di un giorno. Gennardino amava invece rendere vivo ogni rigo di quelle parole profondendo lo stesso amore che nutriva per i suoi piccoli alunni, che erano forse più amici che alunni.
Ogni articolo somigliava ad un acquerello di parole. Gennardino seppe trasmettere lo stesso amore per il giornalismo alla sua primogenita Antonella, che oltre a regalargli due bei nipotini gli allargò immensamente l’orgoglio di essere approdata alla Rai dove conobbe e sposò Ettore Giovannelli, volto familiare per i trepidanti tifosi della rossa Ferrari. Un mondo che Gennardino incarnava. Gennardino amava i bolidi e le auto sportive. Un giorno Gennardino mi raccontò le sue emozioni a contatto con quei bolidi che sfrecciavano a trecento orari, il rombo della Ferrari, l’odore della gomma degli pneumatici, del grasso dei motori e del coraggio.
Sapeva descrivere con semplicità la vita, allevare con amore galline ovaiole e coltivare i buoni ortaggi della Nostra feconda terra, era buono, era il professore che amava fare il giornalista e dedicarsi alla grande passione per la terra. Ieri volgendo lo sguardo verso il cielo avrà pensato che forse c’era un necessario bisogno di un professore della “Scuola Media Opromolla”. Forse lassù si sono ricordati delle sue grandi doti di organizzatore delle memorabili estati angresi dei primi anni novanta e hanno deciso di chiamarlo. Tutti vogliamo credere che il professore Alfano sia andato a compiere un’altra importante missione che lo renderà eterno nella memoria. Lieve voglia essere la terra caro professore.
Luciano Verdoliva

La riscoperta della carne di bufalo

Si fa sempre più strada tra le carni alternative: oltre lo struzzo, la carne equina, l'agnello e il coniglio si è scoperta, anzi ri-scoperta la carne di bufalo. Rispetto a quella vaccina, contiene meno grasso tra le fibre (ha invece una grande quantità di "grasso di copertura", facilmente separabile dal magro) e addirittura il 50 per cento di colesterolo in meno, è più tenera e più succosa, per una maggiore capacità di ritenzione idrica. La carne bufalina proveniente può vantare inoltre, rispetto a quella di manzo e vitello, un contenuto di lipidi bassissimo (1.5 %  contro il 19 % bovino) e una quantità maggiore di vitamine B6, B12 e K e di proteine. Ma quello che sorprende è la percentuale di ferro, addirittura doppia.

Eppure non è radicata nelle abitudini quotidiane a causa di un vecchio pregiudizio: anche chi non l'ha mai mangiata crede che si tratti di un alimento duro, dall'odore troppo forte e dal sapore invadente. Il motivo va ricercato nei metodi di allevamento di una volta. In primo luogo i bufali erano sfruttati, se femmine, per la produzione del meraviglioso latte da cui da sempre si ottengono mozzarelle e formaggi; se maschi, per il lavoro nei campi. Insomma, quando arrivavano sulla tavola erano ormai bestioni a fine carriera dalla carne assai poco invitante.

Ma anche chi li allevava per la produzione carnea aveva un brutto vizio: se ottenuta da capi giovani e di buona fibra, veniva spacciata per carne di vitellone. Solo quando la carne non era di gran qualità era effettivamente venduta per bufalina. Ecco come è nato nei consumatori un falso - ma giustificato - preconcetto. (Sarà per questo che si dice "è una bufala" per intendere un piccolo raggiro?)

Comunque, gli scambi di identità sono acqua passata. Oggi un gruppo di imprenditori coscienziosi riuniti nell'
Anasb (Associazione nazionale allevatori specie bufalina) si è dato regole rigide a garanzia del consumatore. Dando di nuovo valore a una risorsa carnea preziosa e soprattutto gustosa. Molti chef infatti sempre più si cimentano nella creazione di ricette che rendano giustizia alla tenerezza e aromaticità della carne bufalina, primo tra tutti Gianfranco Vissani con delizie come gli Gnocchi di patate al limone con ragù di lingua di bufalo al profumo di timo o i Ravioli di salsiccia di bufalo e melanzane.


Ma anche piatti più classici sono da leccarsi le dita, come semplici arrosti o stufati. L'importante che sia il pregiato bufalo mediterraneo italiano, di cui si è anche chiesto il riconoscimento europeo della Igp, indicazione geografica protetta. Nati e cresciuti nelle aree di produzione tipiche della mozzarella di bufala campana (Campania, basso Lazio, Puglia e Molise), i bufalotti da carne, che per loro natura vivono quasi allo stato brado e liberi di pascolare, non vengono sottoposti a metodi di allevamento intensivo, bensì passano la giornata all'aria aperta e sono alimentati con mangimi a base di fieno e mais di produzione locale.

Si rispettano così i ritmi che hanno da secoli e secoli. Infatti la loro collaborazione con l'uomo si perde nella notte dei tempi. In Italia se ne trovano tracce nei documenti fin dall'anno Mille. Nonostante la confusione di fonti bibliografiche (dovuta anche al fatto che col termine "bubalus" la lingua latina indicava buoi, alci e altri ruminanti) la presenza di allevamenti bufalini in Italia può collocarsi, in modo certo tra il XII e XIII secolo. Furono i Re Normanni a portare il bufalo nel continente dalla Sicilia, dove era stato introdotto dagli Arabi. All'inizio del secondo millennio, l'allevamento bufalino si sviluppò principalmente all'interno dei grandi ordini monastici, che durante il Medioevo operarono attivamente nel campo agricolo e dell'allevamento. A partire dal 1300 in molte zone costiere della penisola si crearono le condizioni favorevoli alla diffusione dell'allevamento bufalino, perchéciò che era un ambiente impervio per i bovini era invece un paradiso per i bufali: amano stare a mollo neitonzi o caramoni, le pozzanghere che scavano nel terreno.

Il ritorno dei bufali

Per esempio in Campania nel Basso Volturno e nella Piana del Sele, i bufali si diffusero con rapidità, sfruttando pascoli non altrimenti utilizzabili a causa delle continue inondazioni dei due fiumi. Nella zona esistono ancora le antiche "bufalare", costruzioni circolari in muratura con al centro un camino per la lavorazione del latte e con piccoli ambienti addossati alle pareti destinati all'alloggio dei pastori.

Nella regione oggi si contano circa 200.000 capi allevati per la produzione del latte e il settore carne mostra buone potenzialità produttive perché il clima mite e il terreno fertile creano l'habitat perfetto per il pascolo degli annutoli (i piccoli di bufalo). Con la giusta alimentazione e uno stile di vita naturale, all'età di 15-16 mesi sono pronti per fornire carni tenere, succose, saporite e facilmente digeribili. Anche sottoforma di prelibati salumi, come la bresaola, da condire con un filo di olio al limone.

In libreria per Coniglio "Brigante se more" di Eugenio Bennato (con Carlo D’Angiò).

Il libro è la storia di una ballata: "La ballata era semplice, efficace ed emozionante ed ha acceso l’interesse per una vicenda storica che era praticamente sconosciuta: la ribellione della gente meridionale all’invasione piemontese del 1860. Qualcuno ha cominciato confusamente ad affermare che quella ballata, nata a Napoli una sera della primavera 1979, sarebbe stata scritta un secolo prima non si sa dove non si sa da chi. Qualcuno, folgorato come tanti di quella composizione, ha cominciato a sognare che i briganti dell’Ottocento l’avessero potuta cantare, magari prima della battaglia. E ha cominciato ad insultare noi che l’avevamo scritta (purtroppo solo 120 anni dopo). Nel frattempo la nostra ballata si è diffusa sempre più, aprendo una rinnovata attenzione per la storia del brigantaggio e dell’emigrazione e per una diversa interpretazione della secolare “questione meridionale” . Quei versi e quella musica nati dalla nostra fantasia e dalla nostra sensibilità erano evidentemente l’inno che il sud aspettava da più di un secolo. Un coro di centinaia di migliaia di voci ha cantato in questi trent’anni quell’inno e la celebrazione del 150° dell’Unità d’Italia dovrà fare i conti con le masse di giovani e di intellettuali che non ci stanno più a subire passivamente la retorica risorgimentale. Alle feste popolari di musica dei sud del mondo si vendono magliette con la scritta “Ommo se nasce brigante se more”».
Eugenio Bennato
Eugenio Bennato
L’AUTORE - Eugenio Bennato fonda nel 1969 la Nuova Compagnia di Canto Popolare, all’epoca il primo e più
importante gruppo di ricerca etnica e revival della musica popolare dell’Italia del Sud. Negli anni 70, la NCCP conquista i giovani e influenza considerevolmente gli artisti italiani che formano la famosa “Scuola Napoletana”. Con la NCCP registra 6 LP e dopo l’esordio al Festival dei Due Mondi di Spoleto (’72) realizza tournée di grande successo in Italia e all’estero. Nel 1976 fonda MUSICANOVA e inizia un’attività autonoma di compositore con costante riferimento allo stile popolare. Realizza numerosi LP di successo, fra cui Brigante se more (1979), contenente brani sul brigantaggio meridionale ancora oggi estremamente popolari tra il pubblico giovanile, veicolati anche da centinaia di “cantori di strada” che li ripetono di continuo nelle loro performances.

A rischio chiusura l'Arac di Eboli. In 12 tengono aggiornati i libri genealogici

EBOLI - Continua l’odissea dei 12 lavoratori della sede di Eboli dell’Arac - 10 lavoratori di campagna e 2 addetti alle pratiche d’ufficio - l’associazione regionale degli allevatori della Campania, non percepiscono lo stipendio dal mese di maggio. A denunciare, per l’ennesima volta, la grave situazione è il segretario provinciale della Fai Cisl, Carmine Santese. L’Arac, associazione fondata per l’istituzione e la tenuta dei libri genealogici a servizio della zootecnia, ha sedi in tutta Italia e, in Campania, quello di Eboli è il centro d’eccellenza per la provincia di Salerno. “Stiamo affrontando un caso a dir poco paradossale”, ha affermato il numero del sindacato di categoria cislino. “Dallo scorso mese di maggio la nuova giunta regionale ha bloccato tutte le delibere in precedenza e le ha rispedite agli assessorati di competenza. Qui stiamo parlando di un servizio per le associazioni come la Coldiretti e che presta la propria assistenza a circa 800 aziende in provincia di Salerno, ma nessuno sembra preoccuparsi di questa vicenda. Senza l’albo genealogico sarebbe impossibile avere la certificazione di qualità dei prodotti lattiero-caseari del nostro territorio, in particolare la mozzarella di bufala. Questi lavoratori non prendono lo stipendio e tutti i giorni prestano la loro opera per dieci ore al giorno e non possono neanche scioperare, altrimenti rischiano di essere denunciati”, afferma Santese della Fai Cisl salernitana. “Nonostante il prezioso servizio offerto alle aziende della provincia e all’intera filiera produttiva la Regione continua a mortificare questi lavoratori, che da tempo non godono di una tranquillità economica e lavorano in condizioni disumane. La struttura ebolitana della località Cioffi, di proprietà dell’Università ‘Federico II’ di Napoli, è sprovvista di condizionatori, riscaldamenti ed è a rischio infiltrazioni”. L’Arac, nonostante sia un ente nato e finanziato dal ministero dell’Agricoltura, è legato ai fondi stanziati dalla giunta di Palazzo Santa Lucia che, secondo l’esponente della Cisl, non ha mai garantito una continuità per le attività di sviluppo e controllo del centro di Eboli. “I costi dell’Arac vengono sostenuti direttamente dal ministero dell’Agricoltura, che ogni hanno sborsa per l’ente 1.500.000 euro, di cui 800mila sono destinati al personale”, afferma indignato il segretario Santese. “Questi soldi da Roma vanno a Napoli e da maggio sono blocco. La cosa assurda è che la Regione in questa vicenda dovrebbe fungere solo da organo di controllo ed erogare il contributo ministeriale. Ma misteriosamente i fondi restano bloccati e non possono essere spesi neanche in altro modo”. Quello all’Arac di Eboli è solo l’ultimo colpo inflitto dalle istituzioni politiche - nazionale e regionale - al mondo del lavoro salernitano che - dopo la Ssica di Angri, l’Ense di Battipaglia, la crisi del settore forestale, il momento negativo della comunità montane e dei vari consorzi di bonifica - vede a rischio anche i lavoratori del centro ebolitano. “Anche se si tratta di pochi posti di lavoro (in Campania sono 32 i lavoratori dell’Arac) ci mobiliteremo ugualmente per scongiurare il rischio chiusura”, dichiara il leader provinciale della Fai Cisl. “Domani a Napoli saremo a piazza Matteotti per protestare contro l’annullamento dei finanziamenti al settore forestale con 5000 persone. A questi si aggiungeranno anche i lavoratori dell’Arac di Eboli che faranno sentire la propria voce”, dichiarano i vertici di categoria delle organizzazioni sindacali confederali. “Nei prossimi giorni chiederemo spiegazioni in merito alla vicenda dell’Arac all’assessore regionale all’Agricoltura, Vito Amendolara, per sbloccare gli stipendi di questi lavoratori che sotto il profilo umano e professionale stanno gestendo la situazione in maniera dignitosa ed esemplare”.