venerdì 26 novembre 2010

Il crollo nella piazza principale di Altavilla Silentina. Ecco le foto




















Scoprire Castelnuovo di Conza e i suoi emigranti. Un libro

Tina Terralavoro è l’autrice di “Castelnuovo, paese di emigranti”, appena stampato per i tipi di Valsele, l’avventurosa storia di un popolo in cammino che ha raggiunto i più remoti angoli del mondo, raccogliendo i coralli nei mari africani o costruendo e gestendo il teatro Colombia a Bogotà,un gigante da 9 mila posti.
Nel circondario guardavano a Castenuovo e crepavano d’invidia. Castelnuovo era il paese del caffè vero mica del surrogato imbevibile, abbondava nelle dispense anche nei tempi di guerra, i pappagalli che parlavano e Amalia la Neura, la schiava negra liberata da un emigrato e portata in paese come domestica e tata. Amelia che s’integrò tanto bene da imparare a parlare in dialetto in maniera impeccabile. San Salvador. Guadalupa, l’Africa, gli States e poi Svizzera, Germania e Belgio, dove questi pastori e contadini non misero radici. I castelnovesi si sono dispersi nei quattro “pizzi” del mondo. In una mattina d’inizio agosto 2004 la piazzetta davanti al piccolo centro commerciale è affollatissima: “Vedi tutte queste persone? Alla fine di agosto qui non resterà più nessuno”, Carmine Terralavoro, il sindaco di Castelnuovo mi fotografa la situazione del suo paese. Che si rianima solo d’estate con gli emigranti che tornano a respirare l’aria bella e gentile, come canta una canzone popolare. L’emigrazione è il tratto distintivo del paese dove c’è un sindaco che chiede scusa pubblicamente perché non riesce a smettere di fumare ma pronuncia straordinarie orazioni funebri. Il folclore, la poesia, la memorialistica: tutto parla dello strazio per l’essere lontani dal “Chianieddo”, l’antica piazza. Eppure, eppure: “Nel 2004 abbiamo avuto già sei laureati. Quasi uno ogni cento abitanti. Pochi paesi italiani ci superano!”. Una di loro è Tina Terralavoro, dottoressa in lettere ad indirizzo antropologico, una piccola tempesta di idee ed amore per il piccolo paese che è ancora al secondo posto in Italia per l’incidenza del fenomeno migratorio. Un caso nazionale in un’Italia che è anch’essa terra promessa per i tanti che ogni notte sbarcano coi gommoni a Lampedusa. Tina è l’autrice di “Castelnuovo, paese di emigranti”, appena stampato per i tipi di Valsele, l’avventurosa storia di un popolo in cammino che ha raggiunto i più remoti angoli del mondo, raccogliendo i coralli nei mari africani o costruendo e gestendo il teatro Colombia a Bogotà , un gigante 9 mila posti. A maggio di quest’anno Vincenzo Iannuzzelli, 38 anni, imprenditore castelnovese, è a San Salvador con Mattew Hatfiled Knight, l’erede della Nike, quando quest’ultimo s’inabissò nei mari tropicali. I castelnovesi sono abituati ad andarsene per le strade del mondo. Solo nel 1933, nonostante la politica fascista che scoraggiava le partenze, da Castelnuovo se andarono in 424. Sono diventati di tutto: medici, artisti e diplomatici. E non è una storia finita. “Ancora oggi i giovani se vanno. Considerano il paese un gigantesco ospizio per anziani”, racconta Tina. Lei aveva diciassette mesi la sera del 23 novembre 1980. Alle 19.35 il padre Carmine se la tenne stretta sotto un arco di legno, tutt’intorno c’era il vecchio paese che crollava. “Mia moglie m’implorava, prega prega!. Dissi un’Ave Maria ed un Padre Nostro”. Il bilancio finale è di 84 morti. Nell’ormai lunga storia della diaspora castenovese si apre il capitolo più doloroso. Che è quello della nostalgia dello struggimento. “Chi strappa al tronco verde la radice? Chi vince il primo amore? Il tuo ricordo, il tuo sogno, chi lo dimentica, terra nativa, tanto più mia quanto lontana?”, è la frase di Luis Cernuda messa a conclusione dell’opera di Tina Terralavoro. La situazione del paese oggi? «Calma piatta e nessuna possibilità di rinascita. L’unica speranza – commenta il sindaco, Carmine Terralavoro – è andare via. Oliveto Citra non dista molto da qui eppure sembra un altro pianeta. Qui non c’è futuro, qui non c’è più vita», diceva il sindaco in una recentissima inchiesta sulla realtà delle zone terremotate pubblicata su di un quotidiano. Dollari, caffè e gomme americane non bastano più.

Autore recensione: Oreste Mottola

orestemottola@gmail.com

Colliano: agnelli, zampogne, tartufi e il segretario di Starace


Luci ed ombre della ricostruzione. “Una città del Sele” è il sogno di D’Ambrisi

di ORESTE MOTTOLA orestemottola@gmail.com

Qui “Carni no strane”, è scritto proprio così, l’insegna nuovissima della macelleria all’ingresso del centro cittadino parla da sola. Benvenuti a Colliano, qui dove uno scrittore come Massimo Grillandi ci “cacciò” la trama per uno dei suoi racconti più suggestivi, quello del dottor Andrea, ma oggi nessuno lo ricorda. Qui ganno avuto i batali Beniamino De Vecchis ordinario all’università la Sapienza di Roma, Pietro Capasso giudice alla corte Costituzionale e Sottosegretario all’ Agricoltura. E … dulcis in fundo, Vito Borriello segretario particolare di Achille Starace, il gerarca delle coreografie delle grandi adunate fasciste. A Colliano ci siamo arrivati due giorni dopo che Francesca, una ragazza del paese, dopo una nottata di tormenti, ha deciso di non presentarsi alla celebrazione del matrimonio lasciando di stucco un paio di paesi (c’è anche quello dell’ex sposo) e scatenando così la stampa provinciale. Questi sono paesi dei quali i quotidiani provinciali parlano solo per tragedie o farse. La storia del matrimonio mancato è tragedia per chi l’ha vissuta da protagonista e farsa per chi è corso a giocarsi i numeri al lotto.
Tartufi e zampogne
Colliano è il paese dei tartufi e dei ciaramellari. Produce l’agnello più saporito, gli ottimi caciocavalli del brigante e salumi fatti in casa e sopraffini. Dove il farmacista si chiama Amato Grisi ed è il maggiore studioso della storia della Valle del Sele ed il tabaccaio è Carlo Fumo, cesellatore di belle storie di vita collianesi su ” Il Saggio “. Il santo protettore è San Leone, e così tanti hanno questo nome. Troppi, ed è così che abbondano le varianti sul tema. Leone, detto Lilino, Napoliello, 73 anni, è stato insegnante elementare pur avendo una laurea in lingue presa all’Orientale. Negli anni Cinquanta scriveva le lettere di presentazione ai compaesani che volevano emigrare in Francia o in Svizzera. Un industriale parigino, quando seppe, da un suo operaio collianese, del caso di questo professore che assisteva chi andava in cerca di un avvenire migliore, volle conoscerlo, così come la figlia, che volle anche sposarselo.
Paese di individualisti
“Questo è un paese di individualisti. E’ la nostra condanna. “, dice mentre esce dal bar. Leone Tartaglia è “Leo” per gli amici ed ha buttato il sangue per dare un’utilità ad palazzetto dello sport costruito coi fondi della ricostruzione… in un bosco. Ha sempre un sorriso sincero stampato sulle labbra, non nasconde l’amarezza. “Non ho ricevuto aiuti. Il campo di calcio, il tennis, sono disseminati in altre parti del paese. Così non si va avanti. A 22 anni prese la valigia e se nandò a Genova. Nei fine settimana tornava a Colliano e con le sue mani si costruì la casa. Con i suoi risparmi, non con i soldi del terremoto”. Gerardo Strollo di professione fa il veterinario ma “l’animale” che più l’appassiona è il suo paese. Ha valorizzato quant’altri mai il tartufo, organizzando perfino una mostra mercato – nazionale ed una rivista quadrimestrale: “La via del tartufo”. “Dalle 15 alle 20 famiglie vivono agiatamente di questa attività”.

Il ratto delle Sabine. Il preside Adriano D’Ambrisi, figlio di falegname e laurea in matematica, guarda ad Oliveto Citra e, scherzando ma mica tanto, vagheggia una sorta di moderno “ratto delle Sabine”. “Gli olivetano ci sanno fare. Grandi commercianti, eccezionali lavoratori, sanno anche mettersi assieme”. Il professore Napoliello, “il parigino”, tira fuori un recente reportage di “Unico” sul paese vicino dove era stata affacciata la tesi dell’esistenza di un rapporto tra sviluppo dell’economia e diffusione del protestantesimo. “Osservazione acuta, è proprio così”. Grazie, professore. Andrea Goffredo, un altro insegnante, recrimina sulle classi dirigenti del passato: “Ci hanno abituato alla divisione degli uni contro gli altri”, dice. Luciano Fasano parla di effetto “Cinecittà” della ricostruzione che tanto si allontana dalla piazza principale e più diventa approssimativa. Franco Annunziata è un ingegnere: “Le nostre campagne sono state polverizzate dalla possibilità data a chi non era lavoratore della terra di potervi trasferire la propria abitazione”. Mauro Iannarella da poche settimane è stato eletto presidente della Pro Loco: “Oggi facciamo i conti con venti anni di ricostruzione sbagliata che ha tolto l’anima a questo paese”. A parlare, in questa domenica mattina collianese, è l’intellettualità paesana: “Siamo emarginati. La classe politica non ci ascolta”, dice D’Ambrisi.

Ricostruzione da 50 milioni a testa. “E’ stato stimato che la ricostruzione a Colliano è costata 200 miliardi, 50 milioni per abitanti. Non lo dico io, lo ha scritto Il Corriere della sera”, sospira Luciano Fasano. Un altro choc. Eppure il post terremoto di Colliano è portato ad esempio, ed è preceduto solo da Valva per aver rispettato il paese originario. “Sono stati venduti a 1000 lire i nostri coppi che stavano sui tetti e sostuiti con materiali scadenti che costano un decimo. Sono spariti – dice ancora – anche i portali. Rubati o venduti a niente “. Coi fondi del Pit Antica Volcei sta per essere recuperato Palazzo Borriello, al “Chiazzillo” o “Riccio”, come i collianesi chiamavano questa piazza. Ottima iniziativa, ma dopo un quarto di secolo della costruzione nobiliare rimangono solo le mura. Così come all’imponente palazzo Augusto , a ridosso della chiesa madre. “Adagiata come in una conca, immersa fino alla gola tra i castagni e gli ulivi, fusa in un groviglio di case e strade, dove tutto finisce poi per fare da ornamento…”., così la racconta Carmine Manzi. Che continua: “Colliano è adagiato sui monti che sono alla sinistra del Sele: a prima vista dà l’impressione di essere un paese depresso e di starsene un po’ in disparte, quasi sonnacchioso; poi te lo vedi dinnanzi con la estesa zona dei suoi boschi e con tutte le altre tipiche caratteristiche dei comuni montani, una vegetazione fitta ed in alcune parti quasi selvaggia ed inesplorata, gli ulivi pressochè centenerai, le viti, i castagni, le case sparse ed a gruppi, dello stesso colore…”.

Visita a Collianello. Il 10 luglio l’attiva Pro Loco ridarà vita a Collianello con un maxi concerto di musica etnica che sposerà taranta e zampogna. “Case abbracciate alla stessa roccia, dai tufi che rivelano spesso le crepe del tempo e dove anche il selciato sembra conservare le impronte di quelli che furono i suoi primi abitatori”, scrive Manzi ed una visita veloce ci rivela un mondo primigenio, fatato, con pochi abitanti (poco più di trecento) con alcuni di loro ancora dediti ai vecchi mestieri. E’ per Gerardo e Luciano il paesello dei loro nonni, conoscono i vicoli perchè ci venivano a giocare da bambini. “Gli uomini? Sono alla Scara. Carosano le pecore”, dice l’anziana che si affaccia all’uscio e riconosce il gruppo. Decine di giovani visitatori si aggirano curiosi. “Quasi vent’anni di promozione saranno pure serviti a qualcosa”, si schernisce Gerardo Strollo.

L’imprenditorialità con le risorse locali. Torniamo al capoluogo: Colliano. Le novità sono nella crescita di nuove attività imprenditoriali che chiudono con la “bolla” dei soldi facili che giravano attorno alla ricostruzione. Un esempio è il “Panificio Biscottificio Pasticceria” di Erminia Gugliucciello, che ha come slogan “Il buon pane cotto a legna”, con il marito della proprietaria che dapprima ha fatto l’imprenditore edile e poi si è inventato questo panificio artigianale che, in poco più di un decennio, ha imposto all’attenzione provinciale “il pane di Colliano” e presso il punto vendita offre anche una ricca gamma di dolci e pizze di tutti i tipi. La conduzione è tutta familiare e il preside D’Ambrisi addita proprio questa azienda come esempio dello sviluppo che può arrivare solo dall’intelligente valorizzazione delle risorse locali. Lo stesso avviene per le macellerie e per i tre caseifici che puntano tutti sulla ricotta e sul caciocavallo di Colliano e sul latte delle 23 mila pecore che ancora popolano la zona dell’Alto Sele e del Tanagro. Le tradizioni ritornano prepotenti sulla scena. Antonio Tateo racconta con delle belle fotografie dei Russo e degli Strollo che costruiscono zampogne e ciaramelle e le relative “ance” indispensabili per emettere i suoni, i “tuoni” come dicono gli zampognari. Lo stesso fanno Giuseppe Carbone , Rocco Iannarella e Carmine Di Lione.

Da quel 23 novembre di trent’anni fa tutto è cambiato. Il punto di svolta, benedetto o maledetto, secondo i punti di vista rimane il terremoto, qui non fece solo tre morti e distrusse le case:”Da quel momento ci si è immessi in un mondo nuovo, tutto è trasformato e molte cose non sono state dimenticate”, sottolinea Grisi. A partire dalla rivoluzione di 4500 persone che fino a 25 anni fa vivevano addossate le une all’altra ed ora si sono disperse in un territorio di 53 Kmq. “Chi abita vicino a Oliveto, Contursi, Palomonte ha ormai troncato i rapporti col vecchio centro”, dice Luciano Fasano. “Sono rimasti gli anziani. Le classi di mezzo, che erano bambini durante il terremoto , se ne sono andati – aggiunge – nelle nuove contrade”. E’ questa nuova realtà che spinge Adriano D’Ambrisi, Angelo Di Guida e Andrea Goffredo a cominciare ad “accarezzare” l’idea di spingere sempre più l’acceleratore sull’idea di una vera e propria “città dell’Alto Sele”. Non potendo attuare lo “scambio” di dna con gli olivetani, potrebbe essere una via d’uscita dalle angustie di una comunità che ha storia, risorse naturali e sapori da vendere ma lamenta “la capacità di fare sistema”. E’ la vera dannazione meridionale.

Oliveto Citra: Ufo, profumi e guarigioni della Madonna del Castello


di ORESTE MOTTOLA
"Se la Madonna vuole apparire ad Oliveto Citra, non deve chiedere il permesso a me". Lo disse l’allora arcivescovo di Salerno – Campagna – Acerno, Guerino Grimaldi, conversando un giorno con don Peppino Amato, il parroco di Oliveto. Voleva prendere tempo, riflettere, accertare e discernere. Troncare e sopire. Ci fu invece l’effetto valanga. Si calcola che, negli ultimi vent’anni, più di un milione di pellegrini si siano fermati su quella scalinata di fronte al Castello, e dopo aver recitato qualche preghiera, hanno chiesto una grazia più o meno importante. Un congiunto ammalato da guarire, un nipote discolo ed un marito disattento da correggere. La religiosità popolare, come sempre accade, ha preso il sopravvento sulle prudenze delle gerarchie ecclesiastiche. Nel 1985, nella serata del 24 maggio, iniziarono le apparizioni della Madonna a diversi veggenti. All’inizio erano dodici, oggi sono solo tre. Il mistero s’infittisce anche per un’altra strana circostanza: "Tutte le volte che si effettuano manifestazioni più importanti di preghiera o di feste per ricorrenze relative alle apparizioni della Vergine, il sole partecipa puntualmente con segni spettacolari, meravigliosi: mutamenti di colore, roteazioni e movimenti di palpitazione, spesso si nota nel disco solare l’ostia che usa il sacerdote per la celebrazione eucaristica con le lettere IHS, oppure una croce gigantesca e la figura della Vergine", scrive il parroco. Oltre a vedere gli Ufo nel cielo c’è la storia dei profumi: "La presenza della Madonna – scrive don Giuseppe Amato – si avverte spesso mediante un profumo indescrivibile, la cui fonte non si è riusciti ad individuare. Non si contano le persone che hanno fatto gioiosa esperienza di questo misterioso profumo, sia davanti al cancello delle apparizioni, sia lungo il viaggio di andata o ritorno in occasione di pellegrinaggio".
Il fascino di San Gerardo. Su, in alto, c’è il santuario di San Gerardo Maiella. Giù, ad Oliveto, le apparizioni mariane s’intrecciano con guarigioni inspiegabili. Ci si inerpica tra boschi magnifici che sembra di essere in Svizzera, e poi si scende verso l’inferno della Salerno-Reggio Calabria. Per i paesi che gravitano lungo questa strada, pomposamente definita a scorrimento veloce, ad unire Alta Irpinia e la Salerno – Reggio Calabria c’è anche "l’eresia" vigorosa dei pentecostali, evangelici e protestanti. Terra di misticismo, quant’altre mai questa Alta Valle del Sele.

La religione e’ una cosa seria. Ad Oliveto, paese di commercianti e contadini e di una forte borghesia delle professioni [1]la religione è una cosa seria. Finanche i comunisti si dividono in atei, cattolici e qualche evangelico. Poi c’è la Madonna di Oliveto che è un nervo scoperto che anima uno scontro a tutto campo. "Ci chiamiamo fuori da ogni diatriba dottrinale. Siamo davanti ad un fenomeno da rispettare. I pellegrini vanno adeguatamente ospitati. Perché no, siamo attenti al ritorno economico utile a tutta la collettività olivetana, che essi determinano", dice Italo Lullo, il sindaco diessino. Gli olivetani e la Madonna è un romanzo che viene scritto da vent’anni. Ogni tanto c’è un capitolo nuovo. Fede e fantascienza, superstizione e fascinazione, suggestione e verità, le chiavi di lettura del fenomeno sono sempre doppie. Anche l’università di Salerno si sta interessando al caso. Paolo Apolito, il più famoso degli antropologi italiani ha incaricato una sua collaboratrice per svolgere una ricerca a tutto campo sulle apparizioni.

C’è  una verità  taciuta?. "La verità la sanno in molti, proprio io non è il caso che te la racconti, ma è meglio lasciare le cose come stanno…", dice più d’uno chi quelli che la sanno lunga. Ed il fenomeno si è incrociato anche con gli Ufo. "Ore 23 del 20 luglio 1985 ad Oliveto Citra (Sa) un centinaio di persone videro una nuvola rossastra molto luminosa stazionare in cielo e il 30 novembre 1985 erano ben visibili 59 punti neri alti in cielo che sembravano dei grandi volatili, prima disposti a forma di rosario e poi a formare chiaramente le lettere AVE", riportano alcune cronache del tempo.

Le guarigioni."Gesù o tà pigli’ o a’ guarisci", era il ritornello mentale della signora Antonietta mentre accorreva in ospedale perchè le condizioni della sorella Anna Voria, ammalata di un fibroma maligno da oltre sette mesi, si erano improvvisamente aggravate. L’ultima spiaggia è quel viaggio a Oliveto Citra, davanti al Castello, dove la Madonna appare: "Vedo Gesù , la Madonna Santissima e un prete con le mani incrociate [...]. Nell’apparizione ad Oliveto Citra mi disse: "Chiedimi tutto quello che vuoi che a me lo concederà". Non aspettavo altro, con mia sorella ammalata, e dissi: "Chiedile la grazia per mia sorella". La testimonianza è entrata a far parte del "dossier" inoltrato al Vaticano per la santificazione del "servo di Dio" Domenico Lentini, da Lauria. E’ un librone pieno di controprove, analisi, esami di medici che dichiarano la guarigione di Anna Voria "inspiegabile in base alle nostre conoscenze". Il volume se lo rigira in mano Raffaele Palumbo, autore de "La Terra dell’Oliveto", per lui è la prova che la chiesa cattolica, ai suoi massimi livelli, ha avallato gli eventi miracolosi che da due decenni avvengono ad Oliveto. Anche i massimi "mariologi" Laurentin, Marnielli e Gagliardi vennero ad Oliveto: "Punsero con gli aghi ed avvicinarono gli accendini le braccia dei veggenti in estasi. Che rimasero indifferenti". L’ultimo evento miracoloso è di poche settimane fa: "Una giovane signora è venuta qui sulla sedie a rotelle. Dopo la preghiera si è alzata e si è messa a camminare da sola", racconta Anna Ricigliano De Bellis, presidente della Fondazione.

La madonna e l’Umts. La Madonna di Oliveto non è tanto schizzinosa verso le nuove tecnologie e c’è chi l’ha persino fotografata col videofonino. "Aspettiamo di avere una relazione medica prima di gridare al miracolo", dice prudente. "Ci veniamo sempre perchè questa è una terra benedetta". La famiglia Sasso è arrivata da Manfredonia, due ore di auto, le macinano almeno una volta al mese. "A Oliveto c’è un dono di Dio. Poi la gente è ospitale. Noi ormai ci siamo affezionati. Divulghiamo la novella con tutti i nostri conoscenti". I pellegrini baciano le scale che portano al Castello che è stato dei Guerritore e poi dei Marino Giglio e si mettono a pregare. Di fronte c’è "L’erba voglio", il negozio che ha preso il posto della farmacia Rufolo. Qualcuno scatta foto, qualcun’altra chiama al telefonino chi deve avere la "grazia" per fargli recitare la preghiera e chiedere direttamente l’intercessione. Sono i miracoli della telefonia mobile. La "Regina del Castello", ovvero la Madonna che da vent’anni, pur se in varie forme, appare nella piazzetta del vecchio maniero, è infaticabile come gli olivetani. Fa arrivare bambini alle coppie sterili senza gli stress della legge 40 sulla procreazione assistita. Guarisce dai tumori quando i medici hanno alzato bandiera bianca. Assiste una bambina di sette anni che deve sottoporsi ad un difficile intervento chirurgico agli occhi per correggere lo strabismo bilaterale. Fa uscire dal coma. Ma secondo qualcuno sostiene, anche se in maniera molto discreta il commercio locale con tre negozi di souvenir ed articoli religiosi ed un "riverbero" sui ristoranti locali. Il fenomeno della Madonna Regina del Castello va avanti da vent’anni. Più frutto del passaparola tra fedeli speranzosi che di una vera e propria azione di promozione. Personaggi ed interpreti: don Peppino Amato, il parroco vecchio stampo, "prete con la tonaca", è scomparso da meno da poco: "Non rifiutate questa meraviglia operata da Dio ad Oliveto Citra, perché correreste il rischio di fare brutta figura, quando i fatti confermeranno questo prodigio", scrive quando ricorda don Leone, il parroco di Andretta, un vicino paese irpino che ad Oliveto ci portava i suoi indemoniati. C’è poi il giovane parroco, don Virginio Cuozzo, che non fa mistero della sua "freddezza" rispetto alle apparizioni mariane. Don Virginio è nell’ortodossia tracciata dal vescovo Gerardo Pierro. Mino Pignata, il sindaco socialista dell’ultimo decennio, sulla questione ha avallato, "Il Borgo della Regina" è il logo degli interventi pubblici che vogliono completare la ricostruzione e dare un nuovo volto alla vecchia Oliveto.

Il parroco della Madonna. «Andrò via da Oliveto solo quando morirò, qui è la mia casa». Lo diceva sempre don Peppino Amato ed il momento del distacco è arrivato quando veva 92 anni. Se n’è andato dopo una breve malattia, dopo un’intera vita dedicata al suo paese adottivo, che mai, neppure quando gli anni e gli acciacchi avanzavano, aveva voluto lasciare per tornare a Sicignano degli Alburni, suo paese d’origine. Encomiabile il suo lavoro, la sua dedizione, come il suo grande coraggio, anche quando – per ben due volte, l’ultima tre anni fa – ladruncoli senza scrupoli si sono insinuati nella sua casa per rubare le offerte dei fedeli alla Madonna, picchiandolo e legandolo. Ma lui, pronto a dire che tutto andava bene, che rimaneva lì, al suo posto. Un coraggio che ha mostrato fino all’ultimo istante della sua vita a quanti ripeteva dal suo letto, pur consapevole che la fine era vicina, «sto bene, non preoccupatevi». Don Peppino è stato il simbolo di una cristianità vera, antica, un uomo buono ma ferreo, che dal dopoguerra ad oggi si è occupato di un paese con grande devozione ed amore. Lo ha fatto fino alla fine, lo ha fatto nella povertà del suo sacerdozio. Lo ha fatto ancor di più quando ad Oliveto Citra iniziarono le apparizioni mariane. Era il 1984. Don Peppino è stato ancora più ferreo, perché il suo compito era capire e scindere la suggestione dalla verità.

Pierro prende le distanze. Alcune persone, il 24 maggio 1985, hanno sostenuto di aver assistito ad un’apparizione della Madonna vicino al cancello che dà l’accesso a un castello diroccato. "Da allora – spiega mons. Gerardo Pierro, arcivescovo di Salerno-Campagna-Acerno – dei sedicenti veggenti continuano a sostenere di avere apparizioni, ma già il mio predecessore, mons. Guerino Grimaldi, aveva dichiarato che non ravvisava elementi tali da poter parlare di fatti soprannaturali". Da anni, il luogo delle presunte apparizioni è diventato meta di pellegrinaggi da altre diocesi campane e soprattutto dal napoletano, ricorda il presule, benché l’autorità ecclesiastica si sia espressa con chiarezza nel senso del rifiuto. "Purtroppo – avverte mons. Pierro – c’è chi specula su tutto ciò. Adesso, il fenomeno si sta ridimensionando. Sarebbe anche opportuno che i sacerdoti dei paesi da cui provengono i pellegrini avvertano sulla mancanza di veridicità del fatto ed invitino i fedeli, che vogliono vivere un’esperienza religiosa forte, ad andare ad altri santuari disseminati in Campania".



I PROTESTANTI

Cronaca di una domenica mattina trascorsa con gli Evangelici della Valle del Sele, quelli di Oliveto Citra, per la precisione. Sono senza gerarchie nazionali ed internazionali. Vogliono essere come la chiesa dei cristiani dei primi secoli. Costantemente attenti alle "opere di bene" ed al "progresso" dei fratelli. Al volontariato col "Banco Alimentare"  per i più bisognosi. Molto tecnologici. Il maxischermo proietta i loro racconti semplici accanto al podio. Il complesso ha ritmi di rock dolce, molto melodico, gradevole ai più. Il volto dei fedeli, più  delle parole, racconta che la maggior parte di loro proviene da un’estrazione contadina. La terra, le sue stagioni, i frutti: ci fanno ancora i conti. Da pensionati, alternano esortazioni al Signore "pè sta gioventù" e mettono in scena una sorta di "Bibbia pauperum" senza immagini, che non siano loro stessi, e santi ma di straordinaria potenza evocativa. E’ quanto accade ad Oliveto, terra di apparizioni della Madonna, sulla strada "gerardina" solcata ogni anno da innumerevoli visitatori  diretti a Caposele, per vedere San Gerardo. Il paese è sede di una significativa comunità  Evangelica che ha oltre sessant’anni di vita. In prima fila ci sono i giovani. "Sono le cose che a loro piacciono. "Ammèn", pronunciato così, lo dicono, quasi come un intercalare, dopo ogni espressione di fede nel "culto" domenicale nella loro chiesa al centro del paese. Tra loro si salutano con il "Pace" ed una stretta di mano. Lo fa anche l’angioletto biondo, un bimbo di non più di tre anni, che poco prima ha cantato con gli altri bambini più  grandicelli della comunità. Più  di uno lo fa anche col "fratello nuovo" come tra loro definiscono il cronista che per un’ora e mezza si è "infiltrato" (dopo essersi presentato al pastore) nelle loro fila ed ha ascoltato canti, testimonianze e letture bibliche. Ed ha apprezzato la bella predica del pastore Romolo Ricciardiello. Sono una "corrente" dei pentecostali che hanno scelto la modernità  anche con il loro rito accompagnato da una piacevole musica rock suonata da Renzo, Gioele, Nunziante, Valerio, Nadia, Mariateresa, Giuseppina e Manuela. Le immagini del "culto" (equivalente della Messa dei cattolici) scorrono sul maxischermo rimandate da due telecamere con regia mobile, e a mo’ di karaoke anche le parole degli inni religiosi che tutti, giovani ed anziani, cantano. C’è poi il momento delle testimonianze e dei saluti. Ci sono i fratelli arrivati dalla Lombardia. C’è la ragazza che è andata insegnare al nord e racconta di aver trovato una chiesa di "confratelli". Segue "l’unzione" dell’olio per superare una difficoltà nel corpo attraverso la preghiera di fede. Poi, "nella piena libertà ", come chiede Pasquale Gigante, ognuno esprime le sue lodi al Signore. Prevalgono gli anziani, ed ognuno parla a modo suo. Non si assiste a fenomeni di glossolalia, il parlare improvviso in altre lingue. Ma ogni tanto qualcuno entra nel discorso con un’esortazione. Questo dei Pentecostali "liberi" è un movimento che ha voglia di uscire dal guscio. Uno dei loro punti forza è a Oliveto Citra. Il pastore è Pasquale Gigante lavora all’Asl Sa/2 presso il distretto sanitario di Bagni di Contursi, che è annessa al locale ospedale. "Impossibile contarci. Ad Oliveto siamo più di duecento. Rappresentiamo l’evoluzione del mondo contadino. Perchè dalle nostre campagne partì la predicazione di Nunziante Cavalieri, che da prigioniero di guerra in Inghilterra scoprì questo nuovo modo di vivere la fede cristiana ". La storia è presto fatta. Cavalieri s’incontrò con Salvatore Garippa, un emigrato di Contursi che si era convertito negli Usa, ed insieme a Pasquale Albano, che rientrato dalla guerra trovò la moglie convertita – clandestinamente – diffusero la predicazione organizzando d’estate incontri nelle aie dei nostri contadini. Diverse volte marescialli dei carabinieri zelanti, aizzati dai parroci cattolici, li arrestarono. Ovviamente furono poi sempre rilasciati. "Da loro partì una spinta alla civilizzazione delle nostre zone rurali della quale tutti hanno tratto giovamento. Dal bagno in casa alla spinta all’istruzione". Contadini sono stati, ma i figli hanno studiato ed ora si fanno valere.

IL PAESE

Il benvenuto lo riceviamo da "Maria Carmela", la poetica e leggendaria fontana bronzea della piazza del "Chianiello", con quattro teste di leone e che prese il nome da una locale donna "di facili costumi". "Com’è oggi il paese di Oliveto? E’ tranquillo, senza droga e delinquenza, ottimamente movimentato e commerciale", così parlò Riccardo Nigro, gestore del Beckett pub, novanta posti a sedere, pizze a volontà e poi … birre trappiste a quattro passi dal Castello Guerritore, il luogo delle apparizioni della Madonna. Va bene, ci crediamo. Oliveto è "Citra" poiché al di qua di qualcosa d’importante e di vitale, ovvero il Sele, l’antico Ceto dei greci. Giù a valle c’è "Bagni", la zona delle Terme con gli alberghi, i ristoranti, il fitness popolare e della terza età. Il commercio che conta, eccettuato Petrillo nella vicina Contursi, invece è ad Oliveto. Qui però c’è il fenomeno del turismo religioso: "Una botta da novecentomila ad 1 milione e 300 mila visitatori l’anno", conteggiano. Va detto che Oliveto è ben messa sulla "Via del Santo", ovvero quel flusso di pellegrini che va a Caposele a vedere la reliquia di San Gerardo. Sia come sia, questa è la marcia in più del paese, la medicina che ha permesso di riassorbire un’industrializzazione più dominata dal "prendi i soldi e scappa " che da un’effettiva volontà di far sviluppare l’economia locale. E, come ci racconta Raffaele Palumbo, che è insieme avvocato, musicista, scrittore, fotografo e Cavaliere di Malta, Oliveto Citra è anche il paese più caro a San Gerardo Maiella, e dove più volte il frate Redentorista fornì prova della sua Santità e dei suoi poteri miracolosi. La storia del fazzoletto di San Gerardo, beneagurante per le partorienti, è tutta "made in Oliveto". E’ tutta laica "l’altra cattedrale", e il paragone non sembri irriverente, funziona da quarant’anni, si chiama ai "Due Cannoni" con la processione dei buongustai per mangiare i ravioli e i fusilli al ragù, le lagane e ceci con la sugna, la fianchetta ossia pancetta ripiena d’agnello o di capretto. Oliveto è anche terra di confronto segnata dall’azione "dissenziente" una forte comunità evangelica ha creato le premesse affinché qui si formasse il più forte polo commerciale della zona. "Siamo ancora nei primi cento paesi d’Italia, al di sotto dei cinque mila abitanti, per il reddito complessivo", racconta Giuseppe Conforti, professore di religione ed esponente dell’Udc. Spirito protestante ed etica del capitalismo, così come ci spiegò Max Weber? "Lasciate stare i santi", aggiunge Conforti, ma il paradosso (mica tanto inventato) lo possiamo toccare con mano in altre località, come Matinella, frazione importante di Albanella. E’ un fatto storicamente accertato proprio da Raffaele Palumbo in "La Terra dell’Oliveto", , edito nel 2002 dal Comune, 295 pagine, come lo zio prete, don Peppino, in una lettera al vescovo racconta come "riporterò alla chiesa queste anime smarrite". Qui le diatribe religiose si sono spente presto, confinate negli anni Cinquanta quando il parroco e sindaco socialcomunista si divertivano più ad ignorarsi che a combattersi e don Peppino Palumbo dava il "passaggio" nella sua auto ad Armistizio, il pastore protestante. Il momento più "alto" della lotta fu nel 1956 ed investì la banda musicale, fondata dal nonno di Giuseppe Conforti. "…Nella festività di S. Antonio la banda musicale non accompagnò l’affollatissima processione in quanto i musicanti di fede politica comunista si rifiutarono di suonare perché i colleghi democristiani avevano fatto la stessa cosa in occasione della festa "rossa" del primo maggio". Episodi da don Camillo e Peppone, sulle rive del Sele.

La ricostruzione del dopoterremoto. I capitoli "maledetti" sono le storie poco edificanti di Coro Tessuti, Castel Ruggiano, Bas, Futura e Monosud. "Tanti giovani ci hanno creduto. Hanno investito il loro futuro in queste aziende. Si sono poi trovati con un pugno di mosche in mano", dice Giuseppe Conforti. "Ci ha salvato il nostro commercio e l’agricoltura", aggiunge Raffaele Palumbo. Sono tante le storie degli imprenditori "virtuosi". "Innanzitutto i nostri. Dai Molini Moscato con la farina, i fratelli Coglianese nella siderurgia, alla Biciclas di Sarro". Lavorano bene la Sudgomme (indotto Fiat), l’Rdb (edilizia), la Plastica Alto Sele, l’Orsi & Pedicini (manufatti in cemento) e la Silaro Conserve. "Hanno quasi un tallone d’Achille – fa notare Palumbo – che è quello d’assemblare materie prime che vengono dall’esterno. E il differenziale del costo dei trasporti li rende molto vulnerabile. Per non parlare di cosa potrà ancora accadere con la globalizzazione galoppante".

I giovani. Se ne vedono parecchi in giro. Sulle panchine della piazza, davanti a bar. "Sì, solo perché è domenica pomeriggio", ribatte Conforti. Che calcola un esodo di almeno 50 ragazzi di Oliveto che ogni anno vanno a cercare fortuna altrove. "Che futuro potranno mai avere qui?", si chiede. "Il problema c’è, ma tu sei catastrofista", gli fa eco Raffaele Palumbo. "Emorragia da fermare", concordano.

Il commercio. Per la verità il punto di forza continuano ad essere quei 130 esercizi commerciali che attraggono clientela da tutta l’Alta Valle del Sele e finanche dall’avellinese. Il commercio è il settore che funziona. L’olivetano è razionale e mercantilista. San Gerardo Maiella, quando nella prima settimana di settembre di quest’anno, tornerà ad Oliveto non riconoscerà il paese che visitò nel 1755, 250 anni or sono. Non c’è più quella che per tutti era la "casa di San Gerardo", spazzata via più che dal terremoto del 1980, dalla ricostruzione che è seguita.
Articoli di Oreste Mottola orestemottola@gmail.com

Valva, aristocratica e misteriosa terra sulla via del grano da Eboli a Matera


La strada verso la terra del grano fu allungata nelle proprietà del marchese di Valva per dotare il suo feudo di una strada, a spese dello Stato
Valva, mithus vivit, quando il mito torna a vivere. Con le storie di dei e ninfe scolpite nella pietra dalla mano dello scultore fiorentino Donatello Gabrielli, il Castello dei d'Ayala Valva è l’emblema dell'incontro con la bellezza. Prima ancora qui era di casa l’abbondanza, con la produzione di grandi derrate alimentari: vino, olio e grano. “Vino Valva da Mezzo taglio: Rosso, schiuma rossa che conserva a lungo, sapido, brillante, fresco, armonico con leggero profumo sui generis, sebevole, acidulo, alcole da 13 a 14°; vini da pasto da 11 a 11,5°". Ed ancora: “tra i vitigni più rinomati: aglianicone, aglianico uva di Troia”. E’ quanto troviamo scritto in una vecchia relazione agraria dei primi del Novecento. Nella villa - castello una botte in rovere di Slavonia, da 365 quintali di vino: “mansueto gigante in legno che aveva ospitato interi vigneti nelle sue branchie”, scrive Diomede Ivone, un prestigioso docente universitario ma nel 1958 solo un giovane aspirante giornalista, quando visita il paese.
La Puglia è qui.
Valva: snodo importante sulla via del grano tra la piana del Sele ed il Tavoliere delle Puglie. Produceva e tanto quell’Azienda Marchesale di Valva, che si estendeva tra le province di Salerno ed Avellino. La proprietà era di una casata nobiliare che risiedeva tra la Puglia e la Svizzera. Uno scatto in avanti l’aveva avuto dal marchese Giuseppe Maria Valva che, di fatto era il ministro dei lavori pubblici con il re Ferdinando IV, quando questi, nel 1789, lo incaricò di costruire la strada che da Eboli portava fino ad Atella in Basilicata, comunemente chiamata la Via del Grano. Collegava il Tirreno con l’Adriatico, facendola passare per il territorio di Valva. E il suo feudo ne ricevette una straordinaria valorizzazione. Come scrive Filomena Monica Losco: “Nel delineare il tracciato, il Marchese allungò di molto il percorso, con varie giustificazioni, per farlo passare nei suoi possedimenti di Valva, anziché utilizzare il passaggio naturale della Sella di Conza”. Ed ancora “La strada di Matera fu così allungata nelle proprietà del marchese di Valva per dotare il suo feudo di una strada, a spese dello Stato". Niente di nuovo sotto il sole.
Tra i fantasmi di un uomo solo.
Ticket da tre euro ed eccoci tra la statue delle “bellezze muliebri che il marchese ha conosciuto nei viaggi e di cui ha voluto conservare, nel marmo, una memoria più duratura di una fotografia”, come raccontò allora al cronista Emilio Grassi, il settentrionale che dirigeva l’azienda. “Ne ha spesi di soldi per i nudi e le statue”, aggiunse l’amministratore dei beni del marchese.
“Campare di turismo? E’ ancora una velleità: ci mancano alberghi e ristoranti. Si sta però provvedendo”, sospirano le guide turistiche, che solo nei fine settimana, accompagnano i turisti nel bosco delle meraviglie. “… Si viene risucchiati dall’inquieta fantasia del marchese, si soggiace ai miti che hanno guidato la sua fantasia di uomo solo”, racconta sempre Diomede Ivone. Erano passati solo pochi anni da quando l?ultimo marchese, Balì dell'Ordine di Malta, scapolo e senza eredi, aveva lasciato tutte le proprietà al blasonato ordine cavalleresco.
I suoi sogni
Il parco è popolato non solo dai richiami quasi onirici del nobiluomo: fate ed elfi, poi teatranti e dame. Ed anche i briganti: uno di loro, l’Anselmi fu quello che uccise il potente fattore Falcone. Lo fucilarono proprio all’ingresso ed una piccola croce nera, nell’unica pietra a vista, testimonia ancora oggi l’accaduto, piccola icona della “storia bandita” del nostro sud. E’ il sapore del passato che prende il visitatore ad ogni passo: clima da new age, atmosfere da “Signore degli anelli”, siamo nel giardino di “verzura” all’italiana, coltivato “all’inglese”, ovvero che tende alla rinaturalizzazione è anche nel paese. Il bosco è pieno di grandi abeti rossi e poi platani giganteschi. Le statue richiamano la mitologia che aiutava il “titolato” a farsi ragione di una quotidianità non esaltante: Apollo e Dafne, Tritone, Amore e Psiche, e poi la Fontana delle Triadi. Ercole è lì, ma è stato capitozzato dai ladri. C’è poi la meraviglia di quell’anfiteatro all’aperto dove un centinaio di statue faceva compagnia al barone d’Ayala (”mi raccomando con la d minuscola”, mi dicono Gerardo Palombo, e le altre guide turistiche) quando quasi da solo guardava gli spettacoli delle compagnie di guitti che passavano. Teste di pietra d?uomini e donne, che dalle siepi sembrano ascoltare le voci del bosco, sono rivolti verso un palco vuoto, due stanze laterali sembrano fungere da vallette.
Pubblicità zero e tutti col sangue blu.
Ancora oggi è luogo di concerti lirici, spettacoli, poiché la splendida acustica di questa struttura ne esalta l?esecuzione. Aperto solo nei fine settimana, Villa d’Ayala, pubblicità zero, fa segnare tremila visitatori all’anno. “Dobbiamo ringraziare gli operai della comunità montana dell’Alto e Medio Sele se viene pulito”, raccontano ancora le guide. I visitatori illustri non mancano: la notte dell’11 aprile 1807 Giuseppe Bonaparte, re di Napoli e della Sicilia, chiese ed ottenne asilo per una notte e alle prime luci dell’alba ripartì. Nel 1943, vi si trattenne il maresciallo Kesserling che vi aveva fatto attrezzare un ospedale per i suoi soldati. “Siamo il più pugliese dei paesi salernitani”, dicono a Valva, perché questo è il paese che si trova sulla vecchia strada del grano, quella che da Eboli porta alla Puglia. E da Taranto vengono i d’Ayala che hanno via via soppiantato i Valva. Dai paesi vicini si divertono a prenderli in giro: “I valvesi? Tutti col sangue blu. Discendono dal marchese quando c’era ancora il jus primae noctis”. ” Qualche fondamento, qui come altrove, c?era fino a tre secoli fa”, raccolgono oggi nient’affatto arrabbiati. In realtà la storia del paese è fortemente intrecciata con quella dei Valva prima e dei d’Ayala dopo. L’Azienda Marchesale (”questa va scritta con le maiuscole”, raccomanda Palombo) aveva migliaia di ettari di terreno: da Colliano, Laviano e poi Teora nell’avellinese. Le produzioni di olio e vino erano incalcolabili così come il numero delle persone che vi trovava lavoro. “Quando durante l’estate il nobiluomo lasciava la sua residenza di Losanna e veniva a trascorrere un periodo di vacanze al castello, ogni tanto, la sera, salivo a fargli compagnia. L’arte era il suo argomento preferito. Qualche volta suonava il pianoforte, e componeva. Tra le carte che ha lasciato ci deve essere anche qualche sua opera…”. Racconta a Diomede Ivone, nel 1958 giovane giornalista de “Il Mattino”, don Lorenzo Spiotta, “gagliardo sacerdote ottantenne della chiesa di San Giacomo Apostolo”. Questa è la storia che finisce nel 1951. Dopo si apre il capitolo dell’emigrazione nei quattro angoli del mondo, della formazione di una nuova proprietà terriera e lotta dei contadini per la raccolta delle olive. Arriva poi il terremoto del 1980. Valva è capace di una ricostruzione che ancora oggi è additata ad esempio. Il centro storico, è uno splendido esempio di ricostruzione artistica. Pur quasi totalmente raso al suolo, le amministrazioni guidate da Michele Figliulo, che poi è uscito indenne da novantanove processi, si impegnarono in una ricostruzione fedele a quanto era andato distrutto, furono numerate le rovine delle case cadute permettendo in questo modo di riprendere la vecchia architettura fusa ad una moderna ricostruzione del centro abitato.
Terra aristocraticamente misteriosa.
Valva terra aristocraticamente misteriosa. Numerosi sono stati i reperti archeologici risalenti al I secolo venuti alla luce nel 1937, tra cui un grande cippo commemorativo addossato ad un muro di terrazzamento del terreno ed una lapide dedicata all’Augustale Caio Spedio Atimeto dal figlio Caio Spedio Asiatico. Quest’ultima, saltata fuori alla Fabbrica, fu trasferita in paese e fatta murare sulla parete di una delle tante meravigliose grotte del parco dei Marchesi di Valva. Fuori dalle mura resiste però quella piccola croce per quel brigante che scannò il massaro Falcone.
Oreste Mottola
orestemottola@gmail.com