martedì 20 dicembre 2011

Gromola, la storia e la modernità. Tra Paestum ed il Sele


ORESTE MOTTOLA orestemottola@gmail.com
 “Voi sapete che siamo in cerca dei resti di un santuario antico e l’inseguimento vostro è veramente ridicolo; ma veramente credete che sono venuto a complottare con le bufale’”, scriveva così Umberto Zanotti Bianco, il 4 aprile del 1934, al Prefetto che gli aveva due poliziotti alle calcagna che lo sorvegliavano mentre si muoveva, con Paola Zancani Montuoro, tra gli acquitrini e le boscaglie di Gromola. ‘Dopo due giornate tra le paludi e le boscaglie, animate soltanto da mandrie di bufale e da torme di uccelli migranti’’. La Gromola di allora era questa: c’era il feudo di Marietta Pinto che poi passò alla “Fondi Rustici”, un’azienda romana. Il centro delle attività era presso la bufalara che qualcuno vuole disegnata da Vanvitelli. “Ha sicuramente più di tre secoli”, racconta l’anziano Felice Morena, sceso giovanissimo da Pruno di Piaggine per la più ubertosa Piana del Sele. “Sulla campana c’è la data del 1911. Quando suonava voleva dire che stava scorrendo il siero ottenuto dopo la lavorazione di provole e mozzarelle e richiamava i maiali. Pur pascolando liberi anche a distanza di diversi chilometri, i suini, tornavano da soli verso il centro dell’azienda dei Pinto. Bufale, maiali, vacche allo stato brado. Questa era la Gromola di quei tempi. La Gromola di oggi è invece una località al centro della fertile Piana del Sele, dotata di una bella piazza e di un’imponente chiesa, originale complesso architettonico, opera dell’arch. Ezio Caizzi, L’originale architettura della Chiesa, centro ideale del Borgo omonimo, conclude la piccola piazza ed afferma, nelle sue linee ascensionali, un simbolico senso di elevazione. Non a caso è al centro di una lieve altura di travertino.

L’AVVIO NEL DOPOGUERRA.
La grande rivoluzione comincia con gli anni Cinquanta. Così ce la racconta una cronaca rimasta anonima: “Nel 1950 il territorio di Gromola era un latifondo di proprietà della “Fondi Rustici” parte ad acquitrino (in modo particolare il terreno prospiciente il fiume Sele ), ed il resto destinato prevalentemente a culture estensive ed a pascolo, privi di sistemazione idraulica agraria. Gli interventi effettuati dal 1952 in poi dalla Sezione Speciale per la Riforma Fondiaria compresero in sintesi le seguenti opere: Messa a cultura dei terreni con le relative opere di trasformazione (dissodamenti, sistemazione del terreno, opere irrigue). Fabbricati per l’insediamento poderale dei coltivatori; ricoveri per gli allevamenti e pro-servizi. Opere di carattere interpoderale (strade, acquedotti, elettrodotti). Borgate di servizio, destinate a soddisfare le essenziali esigenze di ordine sociale ed a favorire le condizioni di vita della popolazione insediata in campagna. Il Sistema dell’insediamento sparso, attuato nella Piana del Sele, mentre offriva evidenti vantaggi per la continua presenza dei coltivatori sul podere, richiedeva peraltro provvidenze atte ad eliminare l’inconveniente dell’isolamento delle famiglie. Il Borgo di Gromola, costruito sulla sinistra del fiume Sele, fu la principale realizzazione di questo tipo compiuta dalla sezione nella piana del Sele, inaugurato dall’On. Mariano Rumor , allora Ministro dell’Agricoltura e Foreste”.

LA ‘FORTUNA’ DI GROMOLA
Non c’è località della Piana così al centro delle relazioni civili ed economiche com’è Gromola: si trova a 4 Km. dalla statale 18, a 3 da Capaccio Scalo attraverso Via Fornilli, oppure 4 Km. dalla Via Provinciale litoranea. Pietro Noce vi è arrivato invece da Trentinara. La sua famiglia, come altre trecento, vi ebbe un podere: “Da allora le nostre infrastrutture sono rimaste uguali. Un po’ di illuminazione, una panchina o una vetrata. Sono cambiate le nostre case, le nostre famiglie, il nostro modo di rapportarci alla coltivazione della terra. Ma la piazza di Gromola, che pure è molto bella, è sempre la stessa. La terra’ Ormai la lavorano solo gli anziani o la si concede in affitto. Che volete che uno ci faccia con un ettaro di terreno’”.

I RACCONTI E LE STORIE
Giovanni Torlo è un vecchio socialista capaccese. Non gli piace ciò che è oggi diventato l’Ersac, l’ex Ente di Riforma. “E’ fatto da gente che si prende solo lo stipendio. Da decenni tutto ciò che toccano fallisce. Io ho più volte proposto di organizzare un’assistenza tecnica a tutti gli agricoltori di Gromola. Per fargli capire come e quando usare concimi ed anticrittogamici. Macchè!”. Domenico Salzano, ha la faccia cotta dal sole tipica dei contadini resa ancora più nera dal naturale colorito bruno, e sogna un museo dell’agricoltura nella bufalara di Gromola. “Mettiamoci anche un caseificio, qualsiasi pur di non farla crollare. E’ il nostro simbolo”. Salzano ce l’ha anche con la legge che ha permesso di dividere i poderi tra i figli degli assegnatari: “Tutti noi avremmo scelto altre strade per vivere. Hanno portato lo scompiglio nelle famiglie ed eccoci qui a portare a “morire” al Mercato ortofrutticolo coi nostri carciofi ed ortaggi”.

GLI IMMIGRATI
Nei racconti e le testimonianze di questi abitanti risalta il rimpianto di ciò che la zona poteva essere e quella che è restata. La presenza di centinaia di immigrati da una parte indica che c’è un’economia agricola che richiede tante braccia dall’altra manca un’adeguata dotazione di alloggi. ‘La sera non sanno che fare e per questo esagerano con la birra ed altri alcolici’, racconta un commerciante. ‘Stazionando per ore, a centinaia, nella piazza di fronte alla chiesa fanno paura alle giovani donne che preferiscono non venire più a fare la spesa, da sole, nei nostri negozi’, aggiunge un altro. ‘Mai successo niente di grave’, ammettono. C’è un problema di integrazione che non può certo essere risolto tutto a Gromola.

MORENA E CERRATO
Chi invece è andato oltre sono i Morena ed i Cerrato, proprietari di importanti aziende vivaistiche. Sono riusciti ad imporsi al monopolio delle più agguerrite multinazionali cementieri olandesi e delle aziende del Settentrione. Morena esporta nel soprattutto centro – sud Italia. Ha cominciato dal 1987, “costretto dall’evoluzione dei mercati”. Nella sua azienda ci sono più di 20 operai e ci lavora l’intera famiglia. Sforna migliaia di contenitori con tutte le solanacee e i fiori. Dalle chicas alle viole. Il padre arriva dalla sperduta Pruno di Piaggine mentre lui, “ho solo la terza media”, dice orgoglioso, è un punto di riferimento dell’agricoltura italiana più moderna. Il suo settore è quello che è stato investito dalle più veloci innovazioni tecnologiche e di marketing. La gdo, la grande e moderna distribuzione organizzata, detta legge. Con i vecchi mercati ortofrutticoli costretti a cambiare pelle e a mettersi alle spalle un certo folclore, o peggio, l’antico sospetto di “pressioni” delinquenziali. C’è poi l’esplosione del biologico, con migliaia di aziende agricole che hanno bandito la chimica dai loro metodi di coltivazione. Ne è passato di tempo da quando tutto si riconduceva al pomodoro, con il “contorno” di carciofi, peperoni, finocchi, cetrioli ed insalate. Ora c’è tutto un mondo di nuove produzioni, i tecnici li chiamano della IV e V gamma. Sono i prodotti orticoli pronti per il consumo. Chi li produce è costretto a rincorrere le mode e modificazioni culturali che investono la società . Con le donne che lavorano la preparazione di pranzo e cena dev’essere sempre più veloce e gli ingredienti (come gli ortaggi) devono sempre più essere adatti all’uso. Ed è la Piana del Sele è zona d’avanguardia. Grazie alle piantine di Cerrato e Morena.

LA CHIESA
L’originale architettura della Chiesa, centro ideale del Borgo omonimo, conclude la piccola piazza ed afferma, nelle sue linee ascensionali, un simbolico senso di elevazione. Notevole è la leggerezza della struttura, tutta in cemento armato, che tocca le fondazioni in solo cinque punti di appoggio. La chiesa e la canonica coprono una superfice di 450 mq. L’interno della modernissima chiesa, nella sua lineare semplicità e nei suggestivi effetti di luce, crea una particolare atmosfera di raccoglimento. L’illuminazione è realizzata mediante una finestratura a piano di calpestio; una luce diffusa proviene dalle finestre in alto e si concentra sull’altare mentre la zona vicina all’ingresso rimane in penombra. La chiesa è dedicata a S.Maria Goretti.

MUSEO DI HERA ARGIVA. Dopo la Foce del Sele, la Lucania e il santuario di Hera Argiva, la fondazione di Giasone è vicino, cinquanta stadi da Poseidonia’, scrisse Strabone. Tra le bufale che pascolano placide in una pianura dominata da ampie pozze d’acqua (siamo sotto al livello del mare) c’è una delle meraviglie dei beni culturali italiani, il ‘Museo Narrante’. Una bella ‘centa’ ci racconta subito il percorso religioso ‘ culturale da Hera al culto popolare della Madonna che tutti conosciamo. 
Le metope e i gli altri reperti parlano, cantano e suonano. Si materializza una massa di donne in processione che prima cantano le lodi di Hera in greco antico e poi, in dialetto ed in italiano, le preghiere alla Madonna del Granato. E la stanza con i fusi per filare il cotone. Le leggende di Giasone, Eracle, Achille, Ulisse ed Oreste escono dai bassorilievi delle metope ed una voce li racconta: è uno dei testi più affascinanti che l’antichità ci abbia mai trasmesso. Evocano miti e modi di agire, come la religiosità popolare, nient’affatto cambiati dopo più di 2500 anni. ‘Raccontare emozionando’, dice il telearchitetto Fabrizio Mangoni è la missione del Museo Narrante di Hera Argiva. E’ il primo luogo d’Italia dove le nuove tecnologie audiovisive hanno rivoluzionato l’idea seriosa che un po’ tutti abbiamo dell’archeologia. Dove i i filmati e le installazioni narranti di Fabrizio Mangoni, hanno stravolto l’idea stessa di Museo. I più affascinati sono i bambini. Pensando di entrare in un libro di scuola s’immergono nel più straordinario, e divertente, dei film storici. Anche il visitatore meno avvezzo alla classicità riesce ad impadronirsi delle atmosfere che respirarono quel gruppo di greci che nel VI secolo scelsero questo luogo per insediarsi e per meglio commerciare con i vicini etruschi. Greci più etruschi, ed ecco i salernitani di oggi. Le città degli dei non nascono per caso. Spuntano sulla sponda del fiume e in riva al mare. Tra campi sterminati e dietro lo scudo della montagna. Dove c´è terra fertile da consacrare ad Hera, e dove un porto, mezzo fluviale, mezzo marino, poteva far invidia a Sibari, perché è da lì venivano gli Achei, i greci che seicento anni e più prima di Cristo fondarono Poseidonia, la città del dio del mare. L´antica Paestum è greca, figlia di Giasone e del mito degli Argonauti.Una puntata ad Hera Argiva è possibile farla sia lasciandosi alle spalle, sono a poche centinaia di metri, le affollate spiagge pestane che l’ultratrafficata Statale 18 che porta verso le cose cilentane. A qualche chilometro dalle mura di Paestum, a ‘50 stadi’ a stare alle misure di Strabone, il geografo dell’antichità, oggi è un po’ una caccia al tesoro perché la segnaletica stradale del comune di Capaccio è ancora carente. Nonostante tutto ciò, dall’apertura datata novembre 2001, le presenze sono state oltre ottomila. E’ tempo quindi per fare un primo bilancio. A questo serve il convegno ‘Accoglienza divulgazione e attività ludica al Museo Narrante’ . La moderna struttura museale di Hera Argiva è ad un punto di svolta. Dal 30 giugno è terminato il finanziamento ministeriale ed ora occorre trovare i modi per far proseguire quest’esperienza. Queste le premesse. Come solo gli abitanti di Gromola sanno, Hera Argiva è un museo chiuso.

Oreste Mottola
orestemottola@igmail.com

Antichi vasi romani provenienti da una galea naufragata duemila anni fa al largo di Capo Palinuro

ORESTE MOTTOLA orestemottola@gmail.com

«Voi a queste battaglie preferite gli ameni ozi di Palinuro, ove gli dei tutto concedono alla bellezza e alla natura», disse un senatore romano ad un collega. Tra i piaceri c’erano i vini che arrivavano in grande quantità dall’isola di Rodi. Trasportate da navi che spesso, proprio da queste parti, andavano ad inabissarsi. L’ultima scoperta è di un team britannico di ricerca sottomarina ha scoperto per caso centinaia di antichi vasi romani provenienti da una galea naufragata duemila anni fa al largo di Capo Palinuro. Ne dà notizia il quotidiano inglese Daily Mail. “La vicenda è di qualche mese fa, chissà perché gli inglesi la ripropongono”, si chiede la Soprintendente Maria Luisa Nava. Capitolo minore della ricerca di eventuali “relitti dei veleni” svoltasi soprattutto a ridosso delle coste calabresi. Per gli addetti ai lavori nessuna sorpresa. Che i fondali cilentani siano popolati da diversi tesori non è certo una novità. Per i cultori di storia ancora meno. I frequenti naufragi dei navigli, erano ben conosciuti tra i più antichi navigatori del Mediterraneo, i Fenici e dei Greci, che chiamarono questo promontorio proprio “Palinouros” che in greco significa “punto di tempesta”, di mare estremamente pericoloso. L’ultimo ritrovamento ha avuto come protagonista l’équipe della Hallin Marine Subsea International, di Aberdeen. L’equipaggio inglese stava scandagliando i fondali, con l’ausilio dei veicoli subacquei Rov (remote operated vehicles), alla ricerca di rifiuti radioattivi “smaltiti” in navi fatte affondare dalla mafia. Il team lavorava per la ditta italiana Geolab, a bordo dell’imbarcazione Mare Oceano.  Con grande sorpresa, invece di relitti moderni, hanno trovato i resti di una galea romana. Nella sabbia, da 500 a 700 metri di profondità giacevano i vasi, che probabilmente trasportavano vino ed olio. Il team ne ha recuperati cinque. Ripuliti con getti d’acqua sono stati consegnati al museo archeologico di Paestum.  ”Siamo riusciti a recuperarne cinque, ma ce ne devono essere centinaia là sotto”, ha detto meravigliato il responsabile della squadra, Dougie Combe. “Certamente è la cosa più antica che abbiamo mai trovato sul fondo marino”, ha aggiunto. A Paestum però, come conferma Maria Luisa Nava, i vasi romani arrivati sono quattro. Non sono stati ancora esposti. E dalle prime risultanze sono di fattura non tale da giustificare l’ingente investimento necessario per un vero e proprio “scavo” sottomarino alla ricerca di comuni, per l’epoca, contenitori di olio e vino. “Dobbiamo pur lasciare qualcosa ai posteri – ironizza la Soprintendente – quando probabilmente avranno mezzi e soldi oggi neanche immaginabili si divertiranno ad utilizzarli lì a Palinuro. Abbiamo localizzato il punto dove i vasi sono sepolti e gli abbiamo descritto cosa c’è. Per il momento va bene così…”.  Palinuro fu per i romani luogo d’ozio e riposo, frequentato da illustri personaggi come l’imperatore Massimiano Aurelio detto Erculeo e suo figlio Massenzio, che lo scelsero proprio per la bellezza dei luoghi e la bontà dei vini.

LA SOPRINTENDENTE . “Quei reperti stanno ad oltre settento metri. La profondità alla quale stanno non è alla portata delle possibilità finanziarie della nostra Italia. Ci vorrebbe un batiscafo, dei palombari…Diversi milioni di euro. Per il momento accontentiamoci di sapere dove sono e cosa contenevano”. Maria Luisa Nava, milanese di nascita, è la Soprintendente per i Beni Archeologici di Salerno, Avellino, Benevento e Caserta. “I vasi portati a portati a Paestum sono solo quattro, non cinque, come affermerebbe il Daily Mail. Sono di un tipo comune nell’area del mediterraneo, delle tipologie egee, ma anche magnogreche, databili nel IV sec. a.C. Ci fu un naufragio, uno dei tanti,  che coinvolse una nave che portava vino dall’isola di Rodi. Era un commercio che si spingeva fin verso Marsiglia”.