venerdì 6 gennaio 2012

Vent'anni fa toccò a me ricordare Enzo

Le sensazioni e i ricordi ancora si affollano nella mia mente e non riesco a dare a essi una forma ordinata, concreta, tant’è ancora l’emozione e soprattutto lo scoramento per dover essere costretto a scrivere al passato. Di me e di Te. Ho aspettato affinché tu  potessi tornare e restare vivo tra noi con il tuo sorriso generoso. Ho immaginato tante volte la scena: la tua macchina che arriva veloce e come al solito si ferma con una brusca frenata, poi il rumore del freno a mano tirato energicamente. Apri la porta di casa, e - come facevi sempre - dimenticando di chiuderla, entri. Siamo un bel po’ oltre la mezzanotte, io sono nel salotto davanti alla tivù  per vedere gli ultimi tiggì. Tu - vedendo la mia faccia stupita e sorpresa - mi dici: “Eh, ve l’ho fatta. Non dire niente a nessuno. Voglio vedere le facce di tutti domani mattina”. No, purtroppo le facce di tutti noi portano ancora i segni del dolore, mamma e papà sono invecchiati di colpo. Renaldo e Turindo si sono buttati a capofitto nel lavoro.
Ho voluto prendere un po’ di tempo per scrivere di te. Volevo togliere dai miei pensieri e dalle mie emozioni la fisicità  di una perdita, il senso di una mancanza materiale, dell’impossibilità di corrispondere. Di litigare. Di amare. Di comunicare. Sto cercando di trovare dei modi per continuare a vivere io insieme a te. Può essere, questo, un qualcosa per inventare più agilmente e facilmente i motivi per andare avanti, continuare a vivere e a soffrire. Ad esistere. Per rendere omaggio ad una breve vita ricca di affetti, di generosità, di spirito di sacrificio, di dolcezza umana e di stile. Di allegria e di un istintivo senso dell’umorismo. Che odiava le usanze. Che amava i bambini, pieno com’eri di voglia di vivere, di combattere senza mai arrendersi, disperarsi, imprecare o maledire la sorte. Con l’ottimismo dei vent’anni. Innamorato dell’idea stessa della sfida.
Era arrivata a sorpresa solo per il calendario quella giornata dell’estate del 1992. Con la temperatura già alta nessuno di noi vi aveva fatto caso. E dalla nostra casa di Sgarroni si sentiva ora un fruscio d’ali, ora un cinguettio d’uccelli o si poteva vedere il silenzioso volo di una bianca farfalla. Davanti, a far da panorama prossimo biancheria stesa ad asciugare, solito vento sbarazzino giocante fra i rami e più forte sul cocuzzolo sul quale poggia la nostra casa, candide nubi in cielo sereno, dalla strada il rombo lontano di un motore... Ed un sabato sera da dedicare ad una pizza, una festa.
Ti avevo visto per un intero pomeriggio lavare il tuo camion, poi nel corridoio al telefono con Paola. Ti lasciai così... Turindo era andato a mangiarsi una pizza con gli amici e si troverà su quella maledetta Statale a Ponte Barizzo e ti vedrà morire. Renaldo stava con Ida a Reggio Emilia. Papà, mamma e Mario dopo la consueta dura giornata di lavoro, avevano guardato un pò la tv e poi erano andati a dormire. Non è facile per me misurarmi con la tua figura. Tra noi c’erano dodici anni di differenza. La mia era l’ultima generazione che ricordava qualcosa del vecchio mondo contadino, che era andata anche tante volte ai Tenimenti a pascolare le capre. Che tiene ben impressa nella mente la Sgarroni attraversata da una precaria stradetta d’estate piena di polvere e d’inverno invasa da veri e propri fiumi d’acqua e di fango. La tua era già la generazione della tivù e della motorizzazione di massa. E tu amavi talmente tanto parlarne di ruspe, escavatori, trattori, automobili. Era il tuo mondo. Il mio, no. La mia testa era (ed è) attraversata fortemente da questo conflitto lacerante tra il mondo agreste e le tecnologie. La zappa ed il computer. Distruggere e conservare. Sperare nel nuovo che potrà portare il Parco Nazionale del Cilento, il turismo, l’agricoltura di qualità. Fantasie... Ma al Nord hanno già i soldi mi dicevi. Questo mio stress ed inquietudine non ti appartenevano. Sai, quella notte e quella terribile prima mattinata del 21 giugno io le ho attraversate volando. Non ricordo. Ho dentro di me solo la corsa verso l’Ospedale di Battipaglia senza sapere cos’era successo. Turindo che mi annuncia - proprio là davanti - che tu te n’eri andato e poi Antonio Guerra che mi tira dentro la sua macchina - prima che io stramazzi a terra - e subito dopo in un bar della Variante tenterà di farmi bere una camomilla. L’entrata in quel bar ebbe qualcosa di surreale. Un fratello ti ha appena detto che hai perso un fratello e l’amico premuroso ti costringe ad entrare e tu - che non hai la forza per argomentare un rifiuto e che tenti di aggrapparti a mille specchi per conservare un minimo di comportamento normale. No, dopo qualche sorso bevuto diventando un automa sono ritornato in me... e una lama affilata è  entrata dentro il mio corpo. Forse là mi sono reso conto per la prima volta di quel ch’era successo. Poi, usciti dal bar e tornati nella macchina il pensiero corse velocemente a papà e mamma, chissà dov’erano. Quella mezz’ora da Battipaglia ad Altavilla è diventata interminabile. I pensieri più strani affollavano la mia mente. Sono questi frangenti che ti fanno davvero fare i conti con la tua vita. Poi l’arrivo a casa, i parenti già quasi tutti lì e quelli che mancavano alle 3 - 4 di notte, zio Turindo li chiamava tutti ed io sentivo e potevo immaginare la sorpresa di chi veniva strappato dal sonno da quella notizia... Ma fino alle 6 sembrò  tutto un sogno, poi con il giorno la tragedia cominciò a disegnarsi nelle sue orrende fattezze. Il vuoto - assoluto ed irreversibile - per me è cominciato da quell’ultima volta che ti ho visto, purtroppo inanime, al centro tanatologico dell’Ospedale di Battipaglia. Eufemismo, per dire semplicemente obitorio. L’illuminazione consisteva in scarsi e freddi tubi al neon. Intorno a te c’erano salme che segnalavano vite finite nel modo più disparato e disperato. Non era stato fatto alcuno sforzo per rendere allegro l’ambiente. D’altronde sia chi giaceva sui letti di marmo che chi andava a riprendersi i corpi aveva ampiamente superato il punto in cui l’apparenza poteva ancora servire da consolazione.
Mentre ero lì ebbi la netta percezione della irreparabilità della perdita. E scoppiai in un pianto a dirotto. Credo d’aver perso in quel momento qualsiasi percezione del tempo. Ma per quanto può bastare piangere? E poi lo strazio di andarti a scegliere la bara. Non la dimenticherò nelle poche ore che sostò qui a casa tua. Con i miei sforzi penosi per convincermi - mentre la guardavo - che tu ti eri trasformato in quei bellissimi fiori che la tua Paola aveva voluto metterti sopra. Tu fosti uno degli ultimi a nascere in casa. Poi venne la serie delle cliniche. Era l’1 febbraio del 1972 nell’abitazione più vecchia della contrada Sgarroni, quella che era già stata dei nostri avi, di nonno Rosario e poi nostra.
Dai balconi e dalle finestre di quella casa si vede l’Alburno maestoso, un bel pò della striscia azzurra del Calore, la bella collina della Tempa della Guardia. Venisti su da sempre con un carattere indipendente e vivace. Avevi gli occhi vispi, luminosi, pieni di curiosità e di naturale intelligenza. A questo aggiungevi un’aria sbarazzina e scanzonata, da scugnizzo. Ho dentro di me alcune scene. Quella sera del terremoto del 1980, quando tu con papà foste gli ultimi a capire di che si trattava e solo dopo varie urla usciste tutti e due fuori dalla cucina. E quell’altra volta che tu che appena appena ti muovevi da solo (avevi due/tre anni) quando ti trovarono che già eri a metà del guado del fiume Calore perchè ti eri accorto che dall’altra parte c’era Renaldo e volevi andarlo a raggiungere. Ed in questo fatto c’erano i tratti del tuo carattere. Ed era quasi una predestinazione. Non ti piaceva stare fermo ed avevi la risposta pronta per tutto e tutti. Sai, mi ricordo bene l’ultima volta che abbiamo discusso. Doveva essere il 5 o il 6 giugno. La campagna elettorale di Altavilla stava finendo e tu mi annunciasti - in anticipo - che mi sarebbe andata male. Lo vuoi capire sì o no che devi farti i bigliettini con il tuo nome e girare casa per casa. La prossima volta voglio mettermi io e farò così. Voglio vedere... Era difficile farti capire il mio spirito decouberteniano. Dell’importante è partecipare. Tu volevi subito vincere. Ma la sorte e le coincidenze non vollero ed interruppero la tua rincorsa.

tuo fratello Oreste

Il nostro saluto a Renaldo Mottola

Nel pomeriggio del 10 ottobre 2009, a Matinella, frazione di Albanella, in un incidente perdeva la vita mio fratello Renaldo, 45 anni.  Ha lasciato la moglie Ida Gorga, e i figli Antonio (12 anni) e Benedetta (5). Lo sconforto di noi familiari (già provati da analoghe tragedie) è stato incommesurabile. A questi sentimenti diede voce, al termine della cerimonia funebre, celebrata magistralmente da don Carlo Ciocca, mia nipote Marica, 16 anni, che ha scritto e letto quello che leggerete di seguito.
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Caro zio Renaldo, ti indirizzo queste parole sia a nome dei tuoi figli Antonio e Benedetta che di noi nipoti Marica, Enzo e Grazia. Non c'è un modo più facile di dire certe cose se non facendolo con il cuore, anche se ormai quello di molti di noi si è spezzato.Vogliamo dirti ciò che avremmo dovuto dirti prima, quando ancora i tuoi occhi erano capaci di brillare e le tue labbra di sorridere pieni di vita e di amore.
Purtroppo il destino ha stabilito che te lo dicessimo solo ora... forse è troppo tardi o forse no, perché crediamo che dal cielo, o da qualsiasi altro luogo dove ora è finita la tua anima innocente, tu ci stia ascoltando. Molti penseranno che questo testo, queste frasi, queste parole, insomma questa lettera, sia solamente un bel po' di inchiostro scritto su di un foglio bianco, invece sono dei pensieri più che profondi scritti su cinque piccoli cuori. Infatti, anche se siamo ancora troppo giovani e privi di esperienze importanti e significative, siamo perfettamente in grado di percepire delle emozioni talmente forti come quelle che una persona così ricca di allegria, laboriosità e generosità, è stato capace di suscitarci, sia da padre che da zio.
Non potremo mai dimenticare tutti i momenti più belli passati insieme, le feste, le vacanze e i compleanni resi più felici e divertenti, dalle tue battute spiritose, dal buon senso e dalla visione sempre ottimistica della vita per poi non parlare dei periodi difficili, come la morte di nonno Antonio, in cui cercavi sempre di sdrammatizzare la situazione, con il tuo coraggio e forza d'animo.
Come padre hai fatto tutto e di più, affrontando qualunque tipo d'ostacolo. Le coccole, gli abbracci, i baci, i consigli, gli insegnamenti, i complimenti, le sorprese, gli aiuti, le preghiere, e pure i rimproveri ma sempre in senso buono e tante altre cose ancora... Come puoi notare è un elenco più infinito dell'orizzonte. Solo così posso raccontare quello che sei stato per noi.
Come zio, ti sei comportato in una maniera altrettanto efficace. Perciò vorremmo poter riavvolgere il film della tua esistenza, farlo tornare indietro, per poterti urlare il nostro grazie... un grazie che per noi vuol dire tutto. Cioè un'unica parola che racchiude in sé tutta una parola di significati e sentimenti, la quale non può esser messa al pari di nient'altro, perché non esistono delle sensazioni uguali a quelle provate da tutti noi, non solo moglie, figli, nipoti, genitori, fratelli e parenti, ma anche colleghi ed amici.
Se solo un gran numero di preghiere e ringraziamenti potessero far resuscitare una persona come te avremmo sicuramente di nuovo qui il nostro dolce papà e nostro zio. Sappiamo che questo non è possibile, perciò ci chiediamo a cosa serve questo nostro affliggerci.
Sì forse perché questo è il modo per accendere nei nostri cuori quella piccola ed inesauribile luce che per noi simboleggerà per sempre la tua presenza, di certo non fisica ma spirituale.
Così ogni volta che faremo una scelta, compiremo gli anni, passeremo un esame, così come ogni altro passo impegnativo, penseremo prima a te, a quello che ci avresti consigliato, alla tua simpatia ed al tuo sorriso che non morirà mai e poi mai, perché sarà sempre vivo nei nostri ricordi.
  MARICA MOTTOLA

Ettore Bielli, il comunista che disse no a Togliatti e si fece anarchico.

 di Oreste Mottola

Di professione decoratore di talento, è stato lui a dipingere l'esterno del vecchio cinema De Marsico a Sala Consilina dove fu confinato politico dal 1939 al 1943. Da uomo libero ci rimase fino al 1947. Con i tedeschi in rabbiosa ritirata nascose sotto la sua abitazione due ebrei. Così li salvò, a prezzo della sua vita, lui il più sospettabile, dalla deportazione e dalla morte. Quando arrivarono gli Alleati spese la sua parola di confinato, di antifascista doc, salvando dalla fucilazione i gerarchi fascisti di Sala ritenuti dei collaborazionisti dei tedeschi. "Mio padre era uno che amò la libertà e il vivere da uomo libero", Wladimiro Bielli, dirigente d'azienda salernitano racconta suo padre Ettore, romano, prima comunista e poi anarchico. "Fu uno dei pochi, con l'avvocato Ceriello di Laviano e Mannucci, un confinato toscano, che osarono sfidare Togliatti e la sua "svolta di Salerno". Bielli passò tra le fila dell'anarchia. "La sua idea della politica come servizio alle classi subalterne contrastava con l'idea degli impiegati della rivoluzione, magari pagati coi soldi dei russi", dice Wladimiro. Nella città del Vallo, lo racconta Mimmo Calicchio, aveva organizzato una sezione comunista con più di quattrocento iscritti. Chi lo ha conosciuto e frequentato è stato Giuseppe Galzerano, professore ed editore, che ancora oggi, nel 2005, non ha paura di dichiarsi anarchico ma veste sempre in giacca e cravatta blu. "Bielli è stato uno spirito libero, quelli che oggi mancano. Una persona semplice e solare". Dalla vecchia Salerno di via Duomo negli anni Cinquanta e Sessanta, Bielli e Angelo Dino, tennero alto il vessillo dell'anarchia che Bakunin aveva impiantato a Napoli. Un'idea romantica e nonviolenta della politica che s'infranse contro le ondate di scontri di piazza che il caso disgraziato di Giovanni Marini, anche lui anarchico, coinvolto nella brutta storia della rissa, poi degenerata, con il missino Falvella. Fu così che anche a Salerno la parola passò alle spranghe e ai picchiatori. Finì il generoso Sessantotto. Ma Ettore Bielli non c'era più , il decoratore gentile, dalle amicizie potenti alle quali mai chiese un favore, morì il 4 aprile del 1972, ed ebbe un funerale civile, con le bandiere rosse e nere della sua vita, che per lui finalmente avevano fatto pace.