giovedì 15 dicembre 2011

Due secoli di storia di Withe Valley: BATTIPAGLIA & DINTORNI, STORIE DI BUFALE E MOZZARELLE


ORESTE MOTTOLA
Ci fu un tempo che tutte le strade passarono per quei contadi sparsi che poi originarono Battipaglia. Così, sia che il re volesse andare a Persano o verso le altri regioni meridionali, o la migliore gioventù italiana ed europea dovesse adempiere al “precetto” di vedere di persona le vestigia classiche della Magna Grecia, era d’obbligo transitare per le terre accostate al Tusciano. Ai lati di quelle strade si trovavano appostati macilenti bufalari e briganti agguerriti, i primi erano lì solo per vendere, ai viaggiatori nelle carrozze, la “provatura” del formaggio di bufala e guadagnarsi, in modo onesto, qualche soldo. Fu così che teste coronate, cortigiani, mercanti, avventurieri, artisti ed intellettuali di tutta Europa, assaggiarono, innamorandosene, questo strano formaggio fresco. Un latticino gustosissimo perchè quell’animale che è la bufala non suda: per questo il suo vero sapore è leggermente acidulo con un vago accenno di muschio?. “Mozzate” dalla pasta filata fresca, perciò chiamate mozzarelle.
QUELLO CHE CI HANNO RACCONTATO I VIAGGIATORI
Il ’700 segna l’ingresso del bufalo, nonchè della mozzarella, nella letteratura odeporica, cioè nei diari dei viaggiatori provenienti da tutta Europa, che già nel secolo precedente si spingevano alle aree napoletane, ultima tappa del Grand Tour, che impegnava i rampolli delle più importanti casate europee come fonte di conoscenza ed informazione. Due singolari circostanze favoriranno la conoscenza della mozzarella fin dalla seconda metà del Settecento: la passione venatoria di Carlo III di Borbone e di suo figlio Ferdinando IV e, successivamente e in subordine, il pellegrinaggio culturale a Paestum.
Però, mentre l’area di presenza bufalina nei territori capuano e mondragonese veniva evitata, perché la strada proveniente da Roma passava per Sessa-Cascano-Sparanise-Capua, chi voleva spingersi fino ai templi di Paestum doveva obbligatoriamente percorrere la piana ebolitana e pestana: “…attraversando canali e ruscelli e incontrando bufali dall’aspetto di ippopotami e dagli occhi iniettati di sangue…” come scrisse il Goethe, che vi giunge nel 1787 e visitò Persano e Paestum. La strada per Paestum fu costruita soltanto nel 1828 – 29; in precedenza vi si arrivava attraverso una mulattiera che i carri avevano contribuito ad allargare: una pista che risentiva dell’andamento stagionale e talvolta era un susseguirsi di buche e pozze d’acqua. L’alternativa era la strada regia delle Calabrie fino a Battipaglia, o fino a Eboli, dalla quale si diramavano tre percorsi che confluivano nella località di Taverna Nuova. Il ricordo delle strade malagevoli e fangose resta ne “I quaderni di Viaggio 1789 – 1790″ di Antonio Canova. Un tracciato, ma non una strada: anche se la via romana oggi detta Popilia o Annea, costruita fra il 131 e il 128 a.C., conobbe una certa frequentazione in eta’ medievale, la poverta’ e frammentarieta’ dei resti finora rintracciati e la testimonianza delle fonti storiche escludono infatti una continuita d’uso in epoca moderna, anche perche’ essa non aveva la larghezza e la pavimentazione delle piu’ note strade romane.Solo nel 1774 coi Borboni si comincia a costruire una nuova carrozzabile, che pero’ dopo vent’anni era appena arrivata a Lagonegro, e bisognera’ attendere i francesi per vederla completata nel 1812. L’attuale percorso della statale 19 ripete abbastanza fedelmente il tracciato di questa via regia borbonica.
Due anni dopo giunge nell’area pestana non un poeta, ma un nobile svizzero attento ai problemi economici, ed in particolare all’agricoltura: si possono estrapolare due significative informazioni dalla sua relazione sul fenomeno bufalino “…razza di bestiame alla quale si porta da alcun tempo molta attenzione… e la descrizione accurata del paesaggio che si estende da Salerno a Paestum, da lui visitato nell?anno 1789, non mancando di deplorare l?inerzia del Governo e la negligenza dei residenti per lo stato di abbandono del territorio ?.. Procedendo in ordine cronologico incontriamo l?avvedutissimo economista Giuseppe Maria Galanti che nel maggio del 1790 visita i medesimi luoghi: “il grano della pianura di Salerno e di Eboli è leggiero e di poca durata. Meglio vi riesce la coltivazione del riso, perché il terreno è bagnato da molte acque; ma questo genere di coltivazione nuoce infinitamente alla popolazione, rendendo colle acque stagnanti pestifera l?atmosfera” Tra il 1797 e il 1805 il bibliotecario Lorenzo Giustiniani dà alle stampe un monumentale Dizionario Geografico-Ragionato del Regno di Napoli, in 13 tomi, dove fornisce informazioni persino su modesti corsi d?acqua come l?Asa, la Cornia o Crogna e la Frestola; nonché, sul lago Picciolo e su quello della Spineta. Durante e dopo il 1810 ci sono le organiche e circostanziate relazioni sulla provincia di Salerno compilate dal Primicerio don Gennaro Guida, per la Statistica del Regno di Napoli:”E? dolente, però fuor d?ogni dubbio che i migliori terreni della piana di Salerno, di Montecorvino e di Evoli [sic] e perfino i piani di Capaccio, le campagne più fertili ed ubertose siano addette al pascolo delle bufale”.
Più volte i viaggiatori intenti alla compilazione delle opere geografiche ed enciclopediche dell’Ottocento si occuparono della mozzarella. Cominciò il signor Rollin, cultore di storia romana, che giunto in zona per conto di D’Anville, geografo ordinario di Murat, scrisse: “la città antica di Pesto è meta di numerose folle di visitatori. Vi si trovano anche le bufale che vivono nelle lande acquose di quei luoghi. Con il loro latte i bifolchi del posto fanno le provature. Essi sono abili nel rapprendere il latte delle bufale con il gaglio dello capretto per fare la ricotta. Cose saporite per lo buon mangiare. Essi pigliano la ricotta delle provature e le rivolgono nelle ceste di mirto. Si recano poi nelle strade di passeggio delle carrozze e de li cavalli per vendere ai visitatori de li loci antichi quelle buone cose. Quest’anno una malattia detta il verme del pantano fece una moria di bufale e noi che venimmo da Ariano non si potette comprare nessuna provola fatta in quella zona”. Nel 1850, è B. Marzolla ad aggiungere sotto la sua dettagliata “Carta della Provincia di Principato Citeriore” come “Vi si allevano non poco bestiame grosso e minuto, molti bufali e cavalli di buona razza. I latticini sono ottimi, spezialmente i formaggi di Eboli (Battipaglia è ancora frazione di Eboli, ndr), detti provole e che traggansi dal latte di bufale”.
LE MOZZARELLE DI BATTIPAGLIA
Quelle di Battipaglia hanno la particolarità d’essere favorite dal clima più secco e da una innovazione: le confezionavano più piccole ed erano meno salate di quelle del casertano. “La mozzarella di bufala è raccomandata dai medici per i sofferenti di stomaco e convalescenti”, le virtù medicamentose le garantiva – fin dagli anni ’30 – la pubblicità del caseificio del cavalier Giovanni De Luna, con sede a via Mazzini, smercio a Napoli, Roma, Firenze e Milano ed esportazione fino in Libia. La Battipaglia moderna deve molto all’allevamento bufalino e alla mozzarella che se ne ricavava, una vicenda che Francesco Crudele, che è stato sindaco e storico cittadino, accostava “a quella dei coloni americani che nella stessa epoca, o press’a poco, si dirigevano verso l’Ovest, superando innumerevoli e difficili ostacoli”, notando come alla conquista del territorio “l’ostacolo fu soprattutto l’acquitrino melmoso e la malaria”.
UNA STORIA ANTICA. La bufala deve la sua fortuna proprio al fatto che mangia tutto e si adatta anche agli ambienti peggiori: un animale da fatica eccezionale per via dell’enorme forza muscolare e per la dimensione degli zoccoli che non affondavano più di tanto nel terreno. Dopo la produzione viene la trasformazione del latte: non è possibile raccontare la storia di Battipaglia tralasciando quegli autentici “genius loci” che sono stati i “casari”. Una foto del 1890 ci fa vedere come i casari ricavano le mozzarelle dalla “compecina”, un mastello basso e largo in legno di noce, mentre due “massari”, eleganti nella loro mise da cavallerizzi, fanno coreografia e osservano compiaciuti la scena. Siamo nel caseificio “Porta di Ferro” dei fratelli Pastore, per i tempi un impianto moderno, già con le pareti maiolicate. Quando i reali erano a Napoli, era da qui che ogni mattina partivano carichi di ogni ben di dio: ma soprattutto di quelle mozzarelle diventate il “passepartout” per l’orgoglio, “paratribale”, come lo definirà Alfonso Menna, di don Oscar Pastore. Più o meno lo stesso facevano i Farina, gli Alfano, Morese, Conforti, Moscati, Agnetti e Iemma: i titolari delle più grandi aziende agricole della Piana del Sele. “Essi non capiscono la ricchezza nutritiva della mozzarella – scrive, nel 1910, un anonimo commerciante di Reggio Emilia, capitato quasi per caso a Battipaglia – oltre che l’eccezionale gusto e la leggerezza nel digerirla da parte dello stomaco. Questi produttori locali sono degli ottimi ma ingenui lavoratori. Nulla essi dedicano a far conoscere il loro meraviglioso prodotto giacchè esso è pressocchè sconosciuto dalle nostre Lande lombarde…”. Insomma, si produceva ancora la mozzarella più come “status symbol” o pregiata merce di scambio e di omaggio, che come vera e robusta attività produttiva e commerciale.
GLI ANNI ’30. Le cose cambiano con l’arrivo di Alfonso Menna che, oltre a “inventare” l’autonomia municipale da Eboli, costruisce le scuole, il cimitero, il macello, il municipio e rimette a nuovo le strade. In poco tempo Battipaglia, importante nodo ferroviario e stradale, diventa anche uno dei principali centri del salernitano per l’attività agricola, i conservifici e i tabacchifici. La chiave di volta è proprio nella stazione ferroviaria: c’è la possibilità di sottrarsi ai rapaci intermediari e grossisti ebolitani per vendere in proprio e fare arrivare il prodotto dove si vuole. Il settore conosce un vero e proprio boom: “Notevole è la produzione dei latticini freschi. In media 40 quintali giornalieri di mozzarella raggiungono i mercati di Salerno, Napoli e Roma”, registra il comm.Menna.
Ed ancora “Il caseificio installato nei locali della Saim, alla via Cilento, ha una razionale attrezzatura e la sua funzione è largamente apprezzata”. Arrivano poi gli avvenimenti del settembre 1943, lo sbarco nel golfo di Paestum e Battipaglia che viene rasa al suolo. La successiva ricostruzione è tumultuosa. Rocco Scotellaro, scrittore, poeta e sociologo lucano vi arriva appena è terminata la seconda guerra mondiale ed ancora non è iniziata la riforma fondiaria: “Nel cuore della bufala”, titola la sua ricerca sul campo. Battipaglia gli appare come “lo specchio di certi aggregati agricolo – industriali del Settentrione con le sue case recenti di un secolo e recentissime perchè ricostruite dopo questa guerra”. E nei campi allora ci sono 6mila bufale, la metà di quelle esistenti in Italia. “La bufala ancora contrasta – scrive Scotellaro – col suo nero mantello fangoso ai canali prefabbricati, al pomodoro e al tabacco, alle file dei pioppi giovani, che, dopo 12 anni, si vendono per legname con un profitto già colato in gola al proprietario”. Insomma, la persistenza della presenza bufala come sibolo di arretratezza. Ma lo scrittore registra anche i “numerosi caseifici famosi per le mozzarelle e le famose provole affumicate”. Di Lascio, Gammella, Paraggio, Sciorio, Giordano, Pietrafesa e Passarella sono i nomi più noti di questi artigiani del latte, che, già dagli anni ’30, operano nel settore. Nel dopoguerra ad essi si aggiungono Pontecorvo, Di Vece, Panico, Villecco e i “casertani” Raimondo e Cecaro. Entrò inscena la “Smica”: il maxi caseificio formato dall’unione tra le ditte di De Luna, Paraggio e Carrara. Dal 1970 venne l’epoca di “Valtusciano” di Vincenzo Citro: nessuno più di lui si è speso per propagandare per ogni dove la bontà della mozzarella fatta con il latte delle bufale battipagliesi. Sono “firmati Citro” il caseificio didattico dell’Istituto Professionale e centinaia di partecipazioni televisive in tutta Europa, simposi scientifici e gastronomici. Le sue mozzarelle, racchiusa in caratteristiche anforette, approdano sulle tavole di Papa Giovanni II°, Sandro Pertini e della Regina Madre d’Inghilterra. Il cavaliere Citro “brevetta” un nuovo tipo di formaggio: il mascarpone di bufala. Di Citro parlerà finanche il prestigioso “New York Times”, il 12 novembre 1986, che titola: “Troubled times for mozzarella makers”. Il quotidiano newyorchese intervenne, con un’intera pagina, in favore dei “latticini d’autore” diVincenzo Citro cacciati dal mercato Usa poichè prodotti con latte di bufala non pastorizzato. “Il sig: Citro è dolente di non poter più spedire alla Dean & De Luca imports a New York o alla San Francisco Cheese in California. Ma comunque egli è convinto che nessun affare potrebbe ripagarlo del danno che si farebbe al suo formaggio con la pastorizzazione. ‘Noi non pastorizzeremo mai’ egli afferma, ‘perchè questo cambierebbe il sapore del nostro formaggio”. La pastorizzazione abbassa la qualità della mozzarella”. Insomma, se la mozzarella integrale di bufala è il Vangelo, Vincenzo Citro è il suo profeta!.
UN PRODOTTO DI SUCCESSO. LA MOZZARELLA DELLA PIANA DEL SELE UNISCE L’ITALIA?
Sembra impossibile, ma in questi tempi di contrasti accesi sia sul piano sociale che politico e religioso, è la mozzarella ad avere assunto una funzione unificante nel nostro Paese. La mozzarella, parliamo di quella doc di bufala, uscendo dai confini campani dove è nata, ha ormai conquistato l’Italia, diventando il terzo formaggio nostrano conosciuto nel mondo, insieme al parmigiano e al gorgonzola. Devoto, è il caso di dirlo, della mozzarella è il Papa, che se la fa venire in Vaticano direttamente dall’azienda Vannulo di Paestum, che produce il famoso latte di bufala secondo le regole della ecobiologia. Dai Vannulo si servono anche Carlo d’Inghilterra, Romano Prodi e l’Harris Bar di Cipriani a Venezia. L’azienda salernitana ha inventato persino un gelato di latte di bufala, generalmente servito in scintillanti coppe d’argento. Dalla mozzarella sono stati conquistati Tom Cruise e Nicole Kidman, George Clooney e Sabrina Ferilli. Nella Capitale sono diversi i negozi che vendono mozzarella doc campana.
A fine Settecento il dilagare di una nuova sensibilità estetica, induce l?intellettualità e l?aristocrazia europea a visitare i templi pestani, descritti da Winckelmann, l?apostolo del neoclassicismo, come tra i più antichi e i meglio conservati dell?arte greca. Flusso turistico parzialmente documentato dal canonico Giuseppe Bamonte che dedica ben dieci pagine della sua opera – Le antichità pestane (1819) – all?elenco dei monarchi e visitatori illustri di Paestum.
Pellegrinaggio reso possibile dall?esistenza di una comoda strada rotabile, Salerno-Persano, fatta costruire da Carlo III per raggiungere agevolmente un suo confortevole pied-à-terre venatorio: la Reale Casina di Caccia. Avvenimento ricordato – tra l?altro – da una lapide del 1754, corrosa ma ancora leggibile, collocata sotto la statua del Patrono di Salerno (San Matteo) sull?imponente “Porta nova” della città, e dal sacerdote salernitano Matteo Greco nella sua Cronaca settecentesca (1709-1787); manoscritto questo che registra persino i passaggi dei reali in vacanza – quasi sempre a fine anno – a Persano. Peraltro, lo stesso Ferdinando IV, durante uno dei tanti soggiorni, così scrive al ministro Acton: “La strada che da Napoli qui conduce non puol essere più bella” (Persano, 1787).
In tal modo, per un motivo decisamente futile, la passione venatoria dei Borboni, un segmento della via regia per la Calabria – ricostruita durante il vicereame spagnolo sul tracciato dell’antica via Popilia che iniziando a Capua (attraverso Salernum, Picentia ed Eburum) collegava la via Appia con Reggio Calabria – diviene “un veicolo di civiltà”, creando i presupposti per la liberazione “dalla miseria e dall?isolamento [di] intere zone immettendole nel circolo vivo della storia mediante il traffico [e] il commercio, produttori sempre di benessere” (Leopoldo Cassese, 1959).
L”stazioni” più rilevanti sulla strada per la Calabria erano, secondo le indicazioni di Galanti: dogana e posta a Salerno, visita doganale a Pontecagnano, osteria e posta a Picenza, Taverna Penta, ponte con osteria sul fiume Battipaglia [Tusciano] e posta a Eboli.
Agli inizi dell’800, l’avvenimento che si ritiene abbia dato inizio allo sviluppo di Battipaglia fu la progettazione e la costruzione di una strada di “conto provinciale”, i cui lavori iniziarono nel 1827; essa partiva dalla consolare delle Calabrie, poco dopo il ponte sul fiume Tusciano, e giungeva fino a Vallo della Lucania, attraversando le pianure di Eboli, Capaccio e Paestum, toccando i Comuni di Ogliastro, Prignano, Rutino e Castelnuovo per un totale di 39 miglia. L’opera fu ultimata nel 1845, anche se mancava ancora del ponte sul fiume Sele, e comportò una spesa complessiva di 352.845 ducati. Le sue piccole case, ancora in costruzione mentre l’esercito garibaldino frantumava le truppe borboniche, rappresentano senza ombra di dubbio il primo consistente nucleo abitativo attorno al quale, in meno di un secolo e mezzo, si è sviluppata la città di Battipaglia, che oggi è proiettata verso sessantamila abitanti. Erano venti edifici a un piano con centoventi casette, le cosiddette “comprese”, che ancora oggi, chissà per quale sorta di miracolo. è possibile intravedere tra i palazzoni e le banche della city. .Hanno perso, è vero, la forma primitiva di case rurali, e non ci sono più cortili sui quali affacciavano i gabinetti e le prime botteghe. Il barone Giacomo Salvarese, direttore dell’Amministrazione delle Bonificazioni del Regno delle Due Sicilie, sostenne fino in fondo la necessità di impiantare una Colonia Agricola nel cuore della desolata pianura, facendola abitare dai contadini sfuggiti al terremoto che nel 1857 aveva colpito la Basilicata e il Vallo di Diano. E proprio a questa gente provata da lutti e dalla miseria, senza più casa e lavoro, doveva essere affidato l’arduo compito di riportare nella palude formatasi tra il Sele e il Tusciano la fertilità e il clima salubre dei secoli antichi
Notizia tratte dal sito: http://www.antonio-ciancaleoni.it/
L’inglese W.J.C. Moens, in cammino verso Paestum nel 1865, fu catturato nei pressi di Battipaglia, dalla banda del brigante Gaetano Manzo, originario di Acerno: “malfattori tra i più insolenti e incalliti che esistono al mondo e che in qualsiasi altro paesi sarebbero arrotati o impiccati; qui invece, sono protetti pubblicamente e ognuno li rispetta e li teme”, come scrisse Patrick Brydone. La fitta boscaglia e la palude attorno alla Colonia Agricola delle comprese offrivano nascondigli introvabili ai briganti, che infestarono la Piana tra il Picentino e il Sele.
Goethe J. W., Viaggio in Italia, (Firenze 1980), p. 225(23 marzo 1787).
(L. KALBY, Gian Battista Piranesi e i luoghi).
De Salis Marschlins C. V., Nel Regno di Napoli. Viaggi attraverso varie province nel 1789, (Trani 1906), p. 168
(Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, 1786-1794).
“Nella sua isola, circondata da un mare di latte, un re alleva le due bufale e custodisce i suoi gioielli”. Così David Bellamy, botanico inglese, commentava, in ” Withe City “, uno dei suoi storici documentari della BBC sulle meraviglie della natura nel mondo, le mozzarelle campane, il regno di Vincenzo Citro e dei suoi “latticini d’autore”, i mitici bocconcini alla panna.
di Oreste Mottola Tel. 338 4624615 0828 720114
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