sabato 2 ottobre 2010

Cronaca di un'esplorazione quasi completa delle Grotte di Castelcivita


“Mettiamoci in fila indiana” suggerisce la guida. “E facciamo attenzione a dove mettiamo i piedi”. Più andiamo avanti e l’aria è sempre più rarefatta ed anche le voci ci tornano ovattate. Il nostro respiro alimenta folate di vapore, come se fossimo nell’inverno più freddo. Non sappiamo a quanti metri sotto la roccia stiamo camminando. Ma andiamo avanti spediti. Quante storie ci scorrono nella mente in questi antri che portano a risalire la grande montagna carsica degli Alburni. All’inizio, nella notte dei tempi, erano le lotte per contendersi la possibilità di vivere nella grotta fra gli uomini e gli orsi, seguirono quelle fra i pipistrelli e l’uomo cavernicolo, in ultimo arrivarono i carri armati nascosti dai tedeschi durante l’ultima guerra mondiale, quelli che salivano fin sul valico di Camerine e sparavano giù verso Paestum. In mezzo ci sono briganti con i loro tesori. Li elenco in ultimo perché tanti li hanno vagheggiati e nessuno li ha ma mai trovati. Ancora più in coda Spartaco e la sua Norce, ma qui siamo direttamente nel mito. Vera o falsa che sia la leggenda di Spartaco, la ricerca archeologica ha dimostrato che in questa gigantesca spelonca, come nelle altre del Cilento, trovò una sistemazione abitativa l'uomo di Neanderthal. E risaliamo indietro di 40 mila anni fa. Un alone di mistero e suggestione l’ha sempre circondato, erano dette Grotte del Diavolo, e se ne ha una prima descrizione tardi, in una pergamena del 1781.Sì, il più grande libro di storia, geografia e chimica delle nostre zone che è davanti a noi. E’ misterioso e sdegnosamente nascosto al mondo della luce. E’ un vero e proprio universo parallelo. Un patrimonio, dal punto di vista naturalistico e geomorfologico, ancora non completamente valorizzato, con notevoli potenzialità inespresse. Una realtà fantastica, in un paesaggio surreale, fatto di concrezioni, stalattiti, stalagmiti, e tante altre migliaia di immagini, che l'occhio umano vede ma non riesce a registrare.
"..E fu un sogno. un sogno di visioni estasianti, di bellezze sempre nuove. E questi tre giovani, ebbri, come avvinti in un incanto, presi tutti da un fascino possente, andarono. Fino alla fine! Fino nell' imo di quelle tenebre profonde che mai luce aveva squarciato, fino a che un laghetto di acqua limpida ed azzurrina loro si paro' davanti”. Queste le prime impressioni di Nicola Zonzi, farmacista di Castelcivita, che con Luigi Perrotta e Davide Giardini, nel novembre del 1927, tentò di penetrare nell'intimo delle visceri di questa spugna gigantesca, per svelarne i suoi plurimillennari segreti. Potremmo sottoscrivere anche noi, moderni emuli di quei coraggiosi, un attimo prima di quando ci troviamo davanti alla prova del buio assoluto. Abbiamo camminato, all’andata, per più di due ore con il casco in testa e le lampadine, sembravamo minatori al lavoro. Ai bordi del Lago Sifone, uno dei grandi pozzi, un orrido da almeno ottanta metri d’acqua che non si sa dove va a finire. Che è pura, va da un verde chiaro all’azzurrino, di quelle tonalità che all’aperto non ne vedrai mai così. Spegniamo le lampadine e facciamo tutti silenzio. Siamo nel ventre degli Alburni. Non c’è il cielo sopra di noi ma concrezioni calcaree che diventano stalattiti e stalagmiti. Le più piccole hanno qualcosa come diciottomila anni. “Se ci girassimo un paio di volte su noi stessi perderemmo sicuramente l’orientamento”, racconta Gaetano Costantino, la nostra guida. Qui non si applica la lezione di Gino Paoli che vedeva il cielo in una stanza. L’esperimento dura pochi attimi. A tutti però sembrano un’enormità. E’ il soffio dei milioni di anni di questa cavità che sentiamo su di noi. Il primo a riaccendere è Giuseppe Verrone: fa plik alla sua lampada all’acetilene e la fiammella ci restituisce al tempo presente. Sulle pareti c’è il rosso delle presenze del ferro, il grigio del carbone o delle sostanze organiche in via di fossilizzazione, i lustrini creati dal carbonato di calcio. Perché la riconquista dell’uomo moderno di queste grotte è cominciata da poco, dal 7 febbraio del 1889 quando dei ragazzini di Controne, i fratelli Ferrara, decisero di calarsi giù dalla piccola entrata (ampliata solo poco il 1930). Giovanni e Francesco Ferrara, con due lucerne ed alcuni fiammiferi, incuriositi dalle dicerie popolari, vi si addentrarono, ma dopo pochi metri, per le esalazioni di acido carbonico, rimasero al buio per sei giorni in attesa dei soccorsi. Purtroppo, Francesco morirà sulla via del ritorno a casa, Giovanni rimarrà segnato per sempre. I veleni erano quelli del guano, i giganteschi depositi del letame dei pipistrelli. Ci misero degli anni gli uomini della Montecatini per toglierlo e trasformarlo in straordinario concime biologico.
L’appuntamento per la nostra gita è per le 14.30 di una domenica. Con un tam tam sono state raccolte poco più di una decina di persone disposte a farsi inghiottire per quattro ore dalle viscere degli Alburni e del fiume Calore: le grotte di Castelcivita. La singolarità dell’impresa è che con scarponcini ai piedi e lampada alla mano percorreremo tutti i 3 chilometri e 300 metri della cavità carsica, e non solo quel poco più di un chilometro del percorso turistico. Quando, e si sono fatte le 18.30, usciamo all’aria aperta stanchi ma in noi c’è l’emozione di aver fatto una straordinaria cavalcata nella storia dell’evoluzione del nostro ambiente naturale. Ed è valsa la pena spendere i 20 euro del biglietto (la normale visita costa 8 euro).
Oreste Mottola
orestemottola@gmail.com

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